Reduce dalla presentazione fuori concorso al Festival di Cannes, “L’Âge des ténèbres(L’età barbarica) approda nelle sale italiane in un periodo che vede la fioritura dei cinepanettoni e fa quasi da contraltare a quegli affreschi edulcorati e comico-demenziali che il consumismo cinematografico propone a ridosso delle festività natalizie.

[oblo_image id=”3″]Il film ribadisce l’attualità degli scenari kafkiani, a cui il regista tenta di contrapporre un’evasione onirica, da un lato amorosa e dall’altro professionale. La convocazione del dipendente Leblanc nella sala riunione, con il cavilloso appellarsi a norme che bandiscono termini dal linguaggio comune, le funamboliche vie burocratiche dell’Ente provinciale e l’esagerata caccia ai fumatori non possono non evocare il signor K. de “Il processo”. Tuttavia Arcand costruisce sapientemente un rifugio nell’immaginario, per contrastare questa invisibile prigione, offrendo una rappresentazione dal forte potere visivo ma anche uditivo. La presenza delle figure fantastiche, pur contrassegnate precisamente come tali, invadono spesso la realtà lasciando scie di presenza prima di scomparire del tutto. Nelle varie scene di unione amorosa tra il protagonista e le sue amanti immaginarie, infatti, le voci sembrano udirsi quasi come se appartenessero alla dimensione narrativa reale, così come le figure femminili si sovrappongono, brevemente, a quelle diegetiche e ciò rafforza l’effetto di comicità suscitata.
Irresistibile è proprio quest’ilarità che esplode nella giustapposizione tra le scene reali
, che spesso sottolineano la palese inumanità delle convenzioni sociali, e quelle fantastiche richiamate dalla mente del protagonista. Jean-Marc, il personaggio principale, si sente schiacciato da un doppio cinismo, subito, per un verso, nella sua vita familiare (la moglie imbrigliata nel vortice della carriera e le figlie chiuse nei loro isolanti gusci tecnologici) e, per l’altro, in quella lavorativa (vedi le situazioni angoscianti che, come funzionario provinciale, non può risolvere). La scena dello spietato medico che diagnostica il tumore e le sue atroci conseguenze ne è poi l’esempio più eclatante.

Neanche l’evasione espiatoria della pantomima medievale riesce a dargli sollievo. La vera reazione alla crisi, in cui si sente immerso il signor Leblanc, sorge proprio dall’abbandono di quegli stessi sogni in cui cercava ricovero. Infatti le dame del suo immaginario cominciano a perdere l’aura di perfezione che le rendeva speciali, esprimendo anch’esse esigenze umane e ribellandosi, a loro volta, a quel ruolo incantato.[oblo_image id=”4″]
La parabola dell’evasione onirica si inscrive, inoltre, in due estremità musicali, che rimandano, con la bellissima aria di Giuseppe Sarti Lungi dal caro bene, a un’estetica di matrice barocca.
In seguito però il regista sembra indicare la necessità del rifugio nell’arte che non passi per fastose “messe in scena” ma scivoli in un principio estetico più ispirato al post-impressionismo, nel quale si esalta il rapporto con la natura, non come mero contatto ma quale ricerca di una vibrazione attraverso il colore. È il desiderio di afferrare la profondità del creato esattamente come meditava Cezanne, nella cui opera sembra mutarsi l’ultima immagine del film. Jean-Marc Leblanc si rifugia appunto, alla fine della vicenda, in uno chalet sul lago, per fuggire dalla sua insopportabile vita quotidiana, preferendo la contemplazione del paesaggio ai suoi mondi, anche a quello magico che aveva inventato.
È il dolore ad innescare la rivoluzione interiore e la ribellione dalla fredda meccanicità della vita, perché solo il dolore, nel pensiero del regista, sembra porre l’uomo di fronte alla propria interiorità. A tale riguardo la breve citazione al Pessoa del Libro dell’inquietudine (Leblanc lo legge in treno) traccia perfettamente la poetica intimista di Arcand, che propone un elogio alla solitudine, proponendola come la via per superare l’intricata rete di pressioni paradossali e grottesche che attanagliano la società.
Un film che merita la candidatura all’Oscar.

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