Vista dalla finestra di Gras, la prima fotografia della storia, eseguita da Nicéphore Nièpce nel 1826 vicino a Chalon-sur-Saône (Francia): iniziò così il viaggio della fotografia. Pensieri fotografici estivi sui progressi della parte pratica, dalle origini “pesanti” sino alla nanotecnologia odierna.
La foto di copertina, all’epoca definita eliografia, è praticamente il primo tentativo riuscito di catturare un’immagine della natura. Il processo scelto dall’autore ha comportato inizialmente la dissoluzione del bitume di Giudea nell’olio di lavanda – che è un solvente spesso usato nella vernice – seguito dal rivestimento di un foglio di peltro con questa miscela; messa poi la lastra all’interno di una camera oscura – una scatola di legno con un piccolo foro su un lato – dopo otto ore venne rimossa e lavata con olio di lavanda per rimuovere ogni traccia di bitume non esposto. Ecco la prima foto della storia.

Se guardiamo il risultato dal punto di vista estetico, quello che appare è una serie di macchie più o meno scure e sfocate. Osservando attentamente è possibile intuire che si tratta probabilmente di edifici, con zone illuminate e ombre, ma durante le otto ore di attesa il sole ha cambiato costantemente posizione e la prospettiva è piuttosto confusa.
Da qui in poi il viaggio della fotografia ci ha portato ad armeggiare con gli attuali dispositivi che, in base al mio viaggio fotografico personale, ha senso confrontare soltanto dal punto di vista pratico. L’impostazione interiore a scattare una fotografia, infatti, continua a rappresentare un momento di confronto più che altro con me stesso, tramite stimoli e motivazioni che vanno oltre la tipologia degli strumenti usati per la ripresa; anche per tutto il processo seguente, dalla visione sul piccolo schermo dello smartphone sino alla qualità delle immagini stampate, il principio guida è lo stesso.


Spesso mi ritrovo a sfogliare alcuni libri che, nella mia biblioteca fotografica, rappresentano punti di riferimento indispensabili, dove posso leggere e vedere come si sono mossi i fotografi che hanno fatto la storia e l’evoluzione dei loro strumenti. Soprattutto alcuni famosi autori statunitensi ci hanno tramandato autoritratti “operativi” che documentano la loro pesante attrezzatura e l’equipaggiamento personale. I fotografi di paesaggio più audaci si avventuravano in territori a volte inesplorati e viaggiavano armati di coltelli, fucili e pistole; senza parlare poi di tutto l’equipaggiamento necessario a compiere lunghi periodi di sopravvivenza solitaria. Per esempio, Ansel Adams trasportava apparecchi di ripresa con lastre di grande formato per centinaia di kilometri a dorso di mulo – specialmente nello Yellowstone National Park agli inizi del ‘900 – mentre altri, già negli ultimi decenni dell’800, si muovevano su carri trainati da cavalli, dove era anche allestita la camera oscura per preparare lastre e stampe. In ogni caso, senza il loro ardore e il coraggio pionieristico, oggi non potremmo avere testimonianza e percepire l’evoluzione dell’ambiente, delle persone e di tutti i vari contesti in cui hanno “eroicamente” operato.

Sono molto riconoscente a chi mi ha preceduto e quando rivedo queste immagini, ormai perse in quasi due secoli di storia, torna costantemente alla memoria ogni movimento ed ogni attrezzatura che ho scelto nel tempo: i viaggi compiuti – certamente meno scomodi! – la Ferrania Iso-Rapid che ricevetti in regalo nel 1967, la biottica Ferrania Elioflex 2 di mio nonno, la mia prima reflex Pentax KM del 1975. Da lì in poi è stata una successione di strumenti che mi hanno portato a sperimentare la tecnologia, sempre strettamente integrata con l’evoluzione interiore: ancora oggi, questi sono i significati che continuano a guidarmi nell’interminabile viaggio della fotografia.