Slumdog Millionaire
di Danny Boyle (con la collaborazione di Loveleen Tandan)
Gran Bretagna, 2008
nomination: miglior film (Christian Colson), miglior regista (Danny Boyle), migliore sceneggiatura non originale (Simon Beaufoy), migliore fotografia (Anthony Dod Mantle), miglior montaggio (Chris Dickens), migliore colonna sonora (A.R. Rahman), migliore canzone originale (A.R. Rahman e Maya Arulpragasam), miglior sonoro (Ian Tapp, Richard Pryke, Resul Pookutty) miglior montaggio sonoro (Tom Sayers, Glenn Freemantle).

[oblo_image id=”4″]Slumdog Millionaire (The Millionaire) porta il regista inglese a girare il suo primo lungometraggio a Bollywood, raccontando una storia intensa, con forti tratti di melodramma, che mette in parallelo lo iato tra lo scenario preconfezionato dello show televisivo e la debordante fatiscenza di una baraccopoli indiana.
Ciò che emerge fortemente, soprattutto nella prima parte del film, è una palese riflessione sulla cognizione, sul suo modo di sedimentarsi nella memoria. Il protagonista, infatti, trovandosi a ripercorrere momenti del suo passato, ricorda in maniera efficacissima ma provando un forte dolore, quasi come avesse le risposte impresse a fuoco nella mente. Il suo percorso vincente al quiz televisivo tocca tappe non della sua istruzione regolare ma, al contrario, quelle della sua travagliata vita infantile. Ognuno degli episodi che gli permettono di conoscere la risposta esatta non sono altro che esperienze drammatiche, segnate da passaggi roventi di violenza e disperati atti di sopravvivenza. Il film sembra allora gridare quanto la conoscenza passi attraverso le emozioni (in questo caso tutte negative) e anche quanto la così detta cultura generale possa svelare vie di apprendimento davvero singolari e tragiche.

[oblo_image id=”5″]Si tratta di una cultura privata di ogni segno di nobiltà, la cui immagine viene brutalmente mercificata, nella scena in cui le poesie sono insegnate ai bambini solo per rendere più efficace l’accattonaggio, ridicolizzata, quando il film ci mostra una classe che assomiglia a un confuso ritrovo di massa, e infine svilita, perché asservita ormai solo alla resa spettacolare, all’esibizione pubblica dello show televisivo.
Ancora meglio questa conoscenza è intrisa di stimolazioni sensoriali estreme: quelle olfattive della caduta nella latrina a cielo aperto, necessaria per ottenere l’autografo del divo, quelle gustative della coca-cola, offerta dallo sfruttatore di lavoro minorile, quelle tattili della pioggia, che Jamal vede cadere su Latika bambina dopo la disperata fuga e quelle uditive dei canti, che i ragazzini erano costretti ad imparare per l’accattonaggio.
Si potrebbe parlare, a tale proposito, di una sorta di realismo sinestetico, che partendo dalla stimolazione visiva invia segnali agli altri organi di senso.

Ma questa visione che risulta tanto potente e suggestiva lascia tuttavia trapelare la sua inesorabile debolezza di fronte alla ferocia umana. In molte inquadrature che descrivono il passato di Jamal, infatti, la camera è spesso obliqua, indicando uno sguardo che sembra quasi indotto a inclinarsi per “intra-vedere” uno spiraglio di salvezza o forse solo per riuscire a sostenere la presenza dell’orrore. La configurazione di tale disfatta prende poi una definitiva attuazione con quell’atto spietato di accecare con l’acido i bambini, affinché commuovano di più i passanti e rendano più efficace il loro questuare. [oblo_image id=”3″]Eppure, con questo gesto che fa rabbrividire, una vera e propria offesa alla percezione visiva stessa, non si delinea una vera e propria negazione (che sarebbe per il cinema stesso un’autonegazione) ma piuttosto una necessità di sopravvivenza, al di là del suo sistema illusorio.

Boyle sembra quasi volerci ricordare, pertanto, che l’immagine filmica è comunque spettacolo, come mostra chiaramente il finale in stile musical bollywoodiano, ma che essa è capace anche di scuotere lo spettatore, investendo a tal punto la sua sensibilità (è il marchio originale del regista: come non ricordare il tuffo nel water in Trainspotting?) da trasformarsi in vibrazione corporea prima che in riflessione. Sembra inoltre voler dire che l’esperienza della visione cinematografica, potendo scuotere e raccapricciare il pubblico, si può attrezzare quale palestra di emozioni artificiali. Può insomma innescare un risveglio dal torpore quotidiano e farci scoprire, a colpi di immedesimazioni che rivoltano lo stomaco dello spettatore, certe stimolazioni estreme, spesso abilmente nascoste nei meandri della stessa visibilità.

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