1967. Lo scià di Persia Reza Pahlevi e la moglie Farah Diba atterrano a Berlino Ovest. Durante la parata d’onore nel centro della città scoppiano violenti scontri tra sostenitori dello scià, polizia e manifestanti che lasciano sull’asfalto più di una vittima. E che daranno il via a una scia di sangue lunga più di dieci anni. Inizia così “Der Baader-Meinhof Komplex”, il film di Uli Edel che, pur fuori concorso, ha dato una scossa a un Festival del Cinema di Roma finora un po’ “sonnacchioso”.
Un film che ci fa ricordare che negli anni Sessanta e Settanta il terrorismo non c’è stato solo da noi. Tutta l’Europa, sulla spinta del lato negativo del ’68, bruciava di fermenti di colori diversi. La Germania, Berlino Ovest, ebbero la Raf. La Rote Armee Fraktion. In pratica le Brigate Rosse in chiave teutonica. In questo panorama, l’unione esplosiva tra l’intellettuale Ulrike Meinhof e lo sbandato Andreas Baader innesca una spirale di violenza che durerà per più di dieci anni, dietro il paravento della guerriglia internazionalista all’”imperialismo” di stampo americano.
Pellicole e fiction su quel periodo, in Germania come nel resto d’Europa, ne sono state realizzate molte. Eppure il film di Edel riesce a mettere a fuoco un aspetto spesso trascurato, forse perché particolarmente inquietante: il fatto che l’ondata criminale non subisce un arresto quando vengono catturati e processati i primi fondatori del movimento. Al contrario, come dice il commissario che si occupa delle indagini sul loro conto (uno splendido Bruno Ganz) riescono a coinvolgere le masse perché creano un “mito”. Il mito dell’eroe contro il sistema, che arriva ad uccidersi pur di non cadere nelle mani del “nemico”. Un mito che crea una seconda, una terza generazione di terroristi che cercano di emulare le gesta dei primi. E che può portare a conseguenze terrificanti, dal momento che è un processo che in teoria può non fermarsi mai.
Se c’è una cosa che i tedeschi sanno fare benissimo è essere impietosi verso loro stessi. Provare per credere: andate a vedere ciò che resta di un campo di concentramento o il Museo dell’Olocausto di Berlino. C’è una spietatezza assoluta, quasi tribale, nel mettere a nudo le proprie macchie e le proprie colpe. E se da una parte si vergognano, hanno pudore a parlare dei propri errori, trovano nei gesti formali e nelle espressioni artistiche una capacità unica di rappresentare i propri errori (o forse sarebbe meglio chiamarli orrori). Senza pretese di assoluzione.
In Germania (e non solo) “Der Baader-Meinhof Komplex” è stato messo sotto processo, proprio in conseguenza di questa realistica rappresentazione della capacità di coinvolgimento da parte del mito della RAF, dal momento che il messaggio potrebbe essere interpretato in modo distorto e innescare nuovi disordini. Eppure resta la sensazione che questo film farebbe bene alle coscienze di molti, se adeguatamente introdotto e spiegato. Proprio per mettere in guardia contro un pericolo che, ci piaccia o no, è sempre dietro l’angolo.