Carlos Monzon
Carlos Monzon

“Sono un malato…Sono un malvagio. Sono un uomo odioso”. L’incipit di Memorie del sottosuolo di Fedor Dostoevskij si adatta come un guanto alla storia di Carlos Monzon. Viso da indio, povero di famiglia, maledetto nella vita, imbattibile sul ring. A diciannove anni dalla morte tornano ancora in mente i fotogrammi di un’esistenza vissuta sempre sull’orlo del precipizio, sospeso tra gloria e scandalo. Istantanee sconnesse come ogni gesto del più grande peso medio della storia della boxe. L’infanzia rubata dal tifo e dalla miseria, l’adolescenza trascorsa in palestra per assicurarsi un futuro  da numero uno, il tragico schianto finale nel tragitto di ritorno verso il carcere. Non era in ritardo e la cella non garantiva gli stessi lussi delle ville che si era comprato, ma lui aveva comunque fretta. Di vivere o morire, poco importa. Nel mezzo si trovano gli incontri. Tanti, epocali, conclusi sempre con le braccia al cielo. Roma, 7 Novembre 1970: il pubblico romano che si aspetta l’ennesimo successo di  Nino Benvenuti e invece arriva lui a rovesciare pronostici e avversario, a cancellare una festa, a stabilire la nuova gerarchia. Sei mesi dopo a Montecarlo: doveva essere la rivincita, fu un massacro con gli assistenti di Benvenuti costretti a gettare l’asciugamano dopo il secondo round. E ancora Griffith, Briscoes, Napoles e Tonna. Pugili di valore ma che contro Monzon passano in rassegna sgranati e piccoli piccoli come comparse nei titoli di coda di un film. O come Rodrigo Valdez, a cui lasciò la corona dopo averlo battuto due volte. Come a dire: io mi ritiro e ti lascio lo scettro, ma non pensare di fare il re con la mia stessa autorità. Finchè c’era il ring la rabbia verso il mondo, quell’ira funesta con radici impossibili da estirpare poteva essere incanalata. Dopo il ritiro, la furia non aveva più argini. Bisognava cercare altri avversari da abbattere. Poco importa che fossero amici o amanti, dive del cinema come Ursula Andress o moglie di amici come Nathalie, consorte di Alain Delon. E come in un combattimento, in quella danza che i pugili interpretano tra un montante ed un gancio, buttò giu dal balcone Alicia Muniz, madre del suo quarto figlio. Avendo ancora la perfidia di telefonare agli amici per chiedere di passare all’obitorio per cancellare le prove della sua violenza sulla donna. Un gesto macabro ed inutile con le porte del carcere che si spalancano sul campione. Fino all’8 Gennaio 1995: Carlos Monzon aveva un permesso. Qualche ora d’aria con l’obbligo di ripresentarsi la sera stessa. Preferì prendersi un lasciapassare eterno. Chi lo ha soccorso dopo l’incidente ha assicurato che avesse un ghigno beffardo. Come se sapesse che un tragico epilogo era l’ultimo irrinunciabile atto per una tragedia lunga una vita.

Carlos Monzon: l’ 8 Gennaio 1995 moriva il pugile maledetto. Imbattibile sul ring dove detronizzò Benvenuti, maledetto fuori. Dall’amicizia con Delon alle storie con le dive sino al tragico epilogo mentre tornava in carcere dopo un permesso per l’omicidio della moglie

 

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