Il cinema cosiddetto militante fa un uso strumentale del soggetto, privo di qualunque rispetto: il regista, schierandosi dalla parte del pubblico, mette alla berlina quanti vengono ripresi; siano essi emarginati o clochard, li si espone.

[oblo_image id=”1″]Tanto nelle dichiarazioni di principio quanto nella produzione artistica, Diego Marcon afferma con perentoria chiarezza di aver assunto ben altra posizione. Meglio sarebbe dire che il giovane filmaker ha rifiutato di schierarsi, ovvero di assecondare lo spettatore a scapito del soggetto ripreso, verso il quale Marcon nutre un rispetto troppo profondo perché possa giudicarlo (e condannarlo) sommariamente.
Tale (assenza di) scelta si manifesta già a livello contenutistico; basti citare le donne di This is not pronography, o dell’ultimo lavoro She loves you: atteggiamenti, che cronache con prurigini moraliste farebbero presto a interpretare, sembra invece che letteralmente debordino dall’inquadratura della telecamera.

Marcon lascia che i suoi soggetti si muovano a briglia sciolta, perturbanti nelle azioni reali come nell’infrazione del codice linguistico, che convenzionalmente si adotta davanti all’obiettivo: il soggetto guarda dritto in camera, sfatando spudoratamente il mito della quarta parete e la trance dello spettatore (che, pure, affliggono un genere “reale” come il documentario), perché ora il protagonista si è accorto di essere sotto osservazione e non accetta di andare in pasto alla curiosità altrui. E’ il soggetto a scegliere, facendo della telecamera messagli a disposizione un uso cosciente.

[oblo_image id=”2″]Marcon gli costruisce attorno una sintassi alternativa,  che risulta impositiva stavolta per coloro che stanno da questa parte dello schermo: audio in presa diretta; fotografia araldica, quasi abbacinante per l’assenza di atmosfera; long take durante la quale i protagonisti entrano ed escono a piacimento dall’inquadratura.
Perché questo non è uno spettacolo realizzato a uso e consumo del fruitore che, se vuole conoscere, deve piegarsi alle condizioni dettate dall’alleanza tra regista e soggetto: in altri termini, guardare dallo spioncino riservato ai voyeur, rinomatamente mai comodi nella loro posizione.

E se il soggetto guarda in macchina, è perché lo spettatore esca allo scoperto: è il film a tenere d’occhio te, ti chiama in causa chiedendoti di essere un buono spettatore; non bravo, buono.

Ne consegue che il film non debba essere di necessità bello, perché Marcon fa del mezzo audiovideo una questione primariamente etica, piegando lo strumento e le categorie concettuali di cui è portatore al senso che invece è proprio della situazione vissuta, sinceramente interrogata.
L’estetica, allora?
Orientato così rigorosamente a scoprire un vissuto epifanico, la poetica di Diego Marcon non manca allora di poeticità, laddove la realtà sa farsi autonomamente poesia: questo appare manifesto nei sospesi arabeschi di gambe e braccia in Pattini d’argento (a proposito del quale giustamente Cristina Piccino che “la vita conduce da sé il suo disegno, i suoi grafismi sul bianco, del ghiaccio come del nulla”), ma la sequenza finale di She loves you non è meno delicata, sinfonia in minore di grilli in amore e umani in strada che, se non apre a grandi prospettive, pur sempre accenna all’esistenza di un percorso, infine di una qualche speranza.

Delicato, rispettoso come lo si definisce sin dall’inizio, Marcon si dimostra pure nei confronti di un dramma che, troppo facile, si farebbe presto a trasformare in fenomeno da baraccone.
In She loves you, la continua ricerca del regista sulle meccaniche relazionali e familiari, il dubbio ultimo dell’impossibilità di una qualunque relazione che spinga l’individuo oltre se stesso, spinge Marcon ad applicarsi sistematicamente alla sua stessa storia: l’opera è difatti incentrata sulla figura della zia Claudia, di dichiarata ispirazione per l’artista nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. (Io stessa ricordo discussioni avute con un Diego giovanissimo che si rivelava, inspiegabilmente, grande esperto dei Beatles. Salvo poi riconoscere il debito con la zia, appunto.) Claudia si è maniacalmente interessata, durante la propria vita, alle vicende del gruppo di Liverpool, al punto che il transfert si è evoluto in una sostituzione pressoché totale dell’esistenza individuale con quello che dovrebbe essere, invece, patrimonio collettivo.
“Sto meglio da sola” confessa proprio Claudia, in un momento di questo suo ininterrotto flusso di coscienza, fedelmente registrato dal nipote: la collettività, il rapporto con l’esterno sono stati appunto esclusi dall’orizzonte mentale della protagonista, che si è appropriata in modo esclusivo di un pezzo di storia. Facendone la sua, di storia.

Marcon rende in modo esemplare questa (mancata) dialettica tra interiorità e mondo: fuori, i ragazzi il rumore le cose in movimento; dentro, il silenzio l’assenza la rievocazione.
Claudia senza il senso di Claudia, perché queste non sono riprese effettuate per un programma di Raffaella Carrà. Non è facile, forse possibile, darsi una finalità in un ambiente che, qualora non si definisce asettico, tutt’al più è trash. Non c’è riconciliazione, allora, se non in quella stanza avulsa dal resto e intrisa di musica, dove Claudia balla, finalmente ha il suo momento perfetto in cui trova motivo di essere, essendo bella perché viva oltre la propria dimensione interiore. E’, questa scena, il culmine di She loves you, che meglio delinea il precario discrimine tra l’una e l’altra Claudia; dove il piacere del presente sfuma senza soluzione di continuità in struggimento per la sua contingenza.
Perché affacciarsi sulla vita, se non offre nulla che sia lontanamente paragonabile ai Beatles? Come trovare quello che si vuole, quando i fan vogliono non sanno neanche loro cosa; qualcosa che neppure le star riusciranno mai a dare, nonostante i ragazzi l’inseguiranno “a scapito della propria vita”.
Non si può dare torto a Claudia.  Difatti, suo nipote si esime dall’esprimere un giudizio in merito. Così dovrebbe fare pure un buono spettatore.

Non bravo, ma buono.

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