[oblo_image id=”1″]Fra i suoi infiniti aspetti, il mondo della musica ne presenta uno qualche volta un po’ snobbato dalla critica e da alcuni addetti ai lavori, ma particolarmente importante e che coinvolge un numero sempre maggiore di musicisti e appassionati. Si tratta delle tribute band, ovvero quei gruppi musicali creati con l’intento esplicito di riproporre (di solito dal vivo) brani di un complesso o di un artista famoso del passato, talvolta arrivando al punto di imitarlo nell’aspetto e nell’equipaggiamento.

A farne parte non soltanto persone che si dilettano amatorialmente ma in molti casi musicisti di ottima fattura: perché rifare canzoni di mostri sacri che hanno fatto storia e che sono stati (o sono) amatissimi dal pubblico comporta una responsabilità, se possibile, ancora maggiore verso chi ascolta.

Un aspetto importantissimo, questo, da tener presente: essere una tribute band a volte è un compito ingrato proprio per l’inevitabile paragone con l’artista omaggiato e bisogna lottare con il luogo comune che è più semplice fare cover di brani, quando invece è esattamente il contrario.

Di contro, però, alcune soddisfazioni non indifferenti e a parte il poter dar vita e fosforo ad una grande passione, quella di regalare al pubblico intensi momenti di “revival” che in alcuni casi difficilmente potrebbero ancora assaporare dagli interpreti “originali”…

Fra le band più omaggiate in Italia, senza dubbio i Pink Floyd.

Una scelta ardua per tutto quello che loro hanno saputo dare alla musica da tutti i punti di vista, anche visivamente. Abbiamo assistito ad un concerto dei Floyd Machine (www.floydmachine.it) al Naima club di Forlì.

Una formazione di 9 elementi che in oltre due ore di spettacolo ha deliziato la platea attraverso un repertorio niente affatto scontato. I momenti più intensi sono stati quelli in cui hanno riproposto alcuni brani del sofferto The Final Cut, mentre i più entusiasmanti senza dubbio il rock devastante di Sheep e una magnifica performance di un estratto di Atom Heart Mother, celeberrima suite che segnò il culmine del periodo puramente progressive del gruppo londinese.

Molto fedeli le sonorità e le atmosfere, anche grazie a un utilizzo sobrio ma sapiente delle luci e del famoso “cerchio floydiano” posto alle spalle.

Grazie a una grande determinazione e alle forti motivazioni soprattutto dei due “capostipiti” Alberto Volpi e Davide Romboli, i Floyd Machine (dotati di una strumentazione davvero notevole e di un addetto stampa) possono essere considerati a tutti gli effetti abbastanza vicini al professionismo.

[oblo_image id=”2″]A fine serata abbiamo avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con il Gilmour della formazione, Davide (e non poteva essere altrimenti!!!) Romboli.

Ecco il sunto dell’intervista che ha gentilmente rilasciato per Oblò.it.

Quali i vantaggi e quali le difficoltà di una tribute band nel rifare brani importanti e a cui la gente è molto legata? Siccome la gente è legata fondamentalmente al disco, secondo me la difficoltà di una tribute band sta nel riuscire a replicare i brani (con tutti gli svantaggi come la strumentazione) con lo stesso tipo di approccio agli assoli e al pezzo perché loro hanno in testa, appunto, il disco. Il vantaggio, invece, è che è già tutto scritto e quindi non ti devi inventare niente se non pedissequamente ripetere quello che qualcun altro ha già tracciato!

In un mondo discografico in cui faticano ad emergere nuovi talenti con lavori inediti non c’è il rischio di un “inflazionamento da cover”? Secondo me sì, ma non tanto per il fatto che non ci sono nuovi artisti. Ma proprio perché il mondo discografico è adesso drammaticamente difficile credo che l’aumento delle cover sia inevitabile…

Quali le difficoltà riscontrate per portare avanti in modo professionale una tribute band? Cerchiamo di fare l’hobby in maniera professionale… Tutti noi abbiamo un lavoro al di fuori della musica e difficilmente credo ci possano essere spazi, almeno qui in Italia, per farlo come ad esempio gli Australian Pink Floyd, che girano il mondo e si dedicano soltanto a quello.

Ci sono altri motivi, oltre alla forte passione, che vi hanno spinto a scegliere di reinterpretare i Pink Floyd? No. Quando ci siamo trovati io e Alberto (Volpi, il bassista-cantante n.d.r.) che siamo lo “zoccolo duro”, ad entrambi piacevano in maniera esagerata i Pink Floyd e quello è stato l’unico collante che ci ha portato avanti negli anni. Passione, assolutamente.

Può essere un obiettivo di una tribute band di un gruppo così celebre quello di lasciare un’impronta personale senza snaturare canzoni o vere opere dai contenuti così importanti e profondi? Il mio obiettivo personale è quello di fare una riproduzione senza dare una mia impronta. Nel tempo verrà anche fuori ma non è un fine che mi sono dato, non so per gli altri…Ad esempio Paolo (Bonori, il tastierista n.d.r.) riesce già a dare un po’ più di sé nelle partiture di Richard Wright. Sono partito dall’idea di risuonare Gilmour e non ho stimolo a mettere cose mie perché snaturerebbe troppo la faccenda: cioè o lo fai molto diverso trasformando i pezzi in qualcosa anche difficile da riconoscere oppure, per come stiamo facendo noi, meglio essere fedeli il più possibile ai Pink Floyd.

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