Andres Escobar nell'illustrazione di Marco Avoletta
Andres Escobar nell’illustrazione di Marco Avoletta

Li ho letti venti anni fa e ci ho creduto. Li ho riletti ora e non ci credo più. I giornali sintetizzano, i titoli dei giornali semplificano. Tanto, troppo. Cercando una spiegazione anche quando una spiegazione non c’è, collegando fatti che solo in apparenza sono connessi.  Hanno raccontato la storia di Andres.Escobar attraverso due scene farneticando che fossero l’una figlia dell’altra.

La prima è ambientata in uno stadio, quello di Los Angeles davanti a 70.000 spettatori il 22 Giugno 1994. La seconda si svolge in un ristorante colombiano, tranquillo come possono esserlo i locali della periferia di Medellin. Nello stadio si sta giocando una partita di pallone, come tante se ne giocano tutti i giorni a tutte le latitudini. Nel ristorante, una coppia sta cenando e intanto si confida qualche parola all’orecchio come fanno tante coppie di innamorati a tutte le latitudini.

Al campo si stanno affrontando Stati Uniti e Colombia: nazionali di valore modesto ma chi vince vola negli ottavi di finale della Coppa del Mondo per sfidare il Brasile. Tanta roba per due squadre che non hanno mai avuto prima un’occasione del genere. La Colombia è favorita perché ha più tecnica, più storia, ma gli Stati Uniti giocano in casa ed il popolo americano ha scoperto che vedere undici ragazzi con la maglia a stelle e strisce correre dietro ad un pallone può essere divertente. La tensione domina, nessuna delle due contendenti ha voglia di fare la prima mossa per il timore di scoprire il fianco all’avversario. Un ragazzo con la maglia gialla e il numero due stampato sulle spalle guida la difesa colombiana con la consueta sicurezza: è lui ad avere la responsabilità di guidare il reparto. sa quello che deve fare e non mostra segni d’incertezza.

Nel ristorante l’uomo appare rilassato fino a quando nota qualcosa di strano. C’è qualcuno che non stacca gli occhi dal loro tavolo. Magari è soltanto un tizio soprappensiero, magari è un poveraccio che non ha di meglio da fare. Chiede se conosce quello strano osservatore, ma la risposta è negativa. Così prosegue la sua cena continuando a dialogare con la moglie. Non si sono visti per parecchi giorni e ora hanno molto da dirsi.

Poi come spesso avviene, arrivano gli imprevisti. E’ il 27’ del primo tempo quando il difensore si accorge che l’ala sinistra degli Stati Uniti si è liberata per crossare in area: lui si apposta in area per respingere la minaccia. Come gli è stato insegnato fin da quando era ragazzino si interpone tra palla e avversario: ora si tratta di attendere solo il passaggio dello statunitense per rinviare lontano il pallone. Ma su quel traversone così innocuo ha un’esitazione. E’ un attimo ma risulta fatale. Si scompone quel tanto che basta per rendere il suo intervento goffo, maldestro. La palla invece di rotolare lontano, si avvia verso la sua porta. Se il portiere fosse tra i pali bloccherebbe senza problemi, ma anticipando l’uscita ha fatto un passo di troppo in avanti. Ecco l’autogol che costa l’eliminazione alla Colombia.

Nel ristorante, la coppia continua a parlare: non ci saranno altri viaggi così lunghi a dividerli e programmano i prossimi mesi, poi chiede il conto. Sembra tutto tranquillo, pochi minuti e saranno a casa. Invece, anche se lui non lo sa , è un uomo morto. Il signore che li fissava attende che i due escano dal locale, grida “Gol” e lo fredda con due colpi di pistola. Lo fa con una naturalezza assoluta, senza scomportsi. E non si scompone più di tanto neanche la gente che era in quel ristorante.  L’uomo che cade a terra è lo stesso che indossava la maglia gialla con  il numero due stampato sulle spalle nel campo di Los Angeles. L’assassino, Humberto Castro Munoz, viene arrestato. Pena? 43 anni di carcere in prima udienza. Divenuti 26 dopo la riforma del sistema penitenziario colombiano. Ridotti a 11 con la sentenza che lo ha rimesso in libertà nel 2005. La giustizia ogni tanto accetta scorciatoie. A Medellin e non solo a Medellin.

Per i giornali è ancora più semplice. Andrés Escobar è stato ucciso per colpa di quell’autogol: «Un autogol, una vida: el asesinato de Andrés Escobar». Forse è così, forse no. Perché qualcosa sfugge a questa ricostruzione, perché non sempre il male è banale come diceva Anna Arendt. L’omicidio di Andres Escobar ha un colpevole ma non ha una logica, un movente, uno straccio di spiegazione. Lo stesso calciatore che era stato scelto dal quotidiano El tiempo di Bogotà per raccontare la spedizione mondiale usa nei suoi articoli parole che ora risuonano ora stridenti, sorde: le riflessioni di un uomo normale in un paese che è un manicomio pubblico, come apostrofato da Maturana, l’allenatore di quella nazionale. “So di aver sbagliato ed è stata una delusione. Ma il mondiale rimane un’esperienza fantastica: la vita non finisce qui”. Purtroppo, su questo si sbagliava.

20 anni fa veniva ucciso Andres Escobar : la Colombia lo ricorda nella partita con il Brasile

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