[oblo_image id=”1″]Istrionico, scanzonato (nel senso di canzoni non accettate a Sanremo), ma pronto a rimettersi in pista. Oltre 40 anni di carriera non hanno intaccato l’umorismo di Teo Teocoli, che dal 28 ottobre tornerà in teatro con il suo nuovo one man show che farà tappa in 22 città italiane. Lo abbiamo incontrato al Sistina di Roma, in occasione della presentazione della tournée. Un Teo vitale, che ha voglia di togliersi qualche sassolino dalla scarpa.

Un nuovo spettacolo, dunque.
Gireremo tutto il nord, poi Roma, Napoli e quest’anno anche la Calabria. Dove non vado è perché ci sono già stato. È il sesto anno di teatro, faccio ormai 60-70 spettacoli all’anno, più un centinaio di cabaret al vecchio Derby (il tempio del cabaret milanese, ndr). Quello è un progetto interessante, che diventerà itinerante per rilanciare il dialetto milanese, che i giovani ormai non conoscono più.

E la rivedremo in tv?
Di sicuro alla Domenica Sportiva. Per il resto avrei voglia ma non saprei dove infilarmi. Non ho mai voluto uno spettacolo tutto mio, ma recentemente ho fatto molto volentieri l’ospite in molti grandi show, come da Carlo Conti a “I migliori anni”. Mi piacerebbe fare Sanremo ma non mi hanno interpellato. Ne ho fatti tre con Fazio da conduttore, me ne ricordo uno in cui imitai Keith Richards e nessuno capì chi fosse. Gli autori si erano dimenticati di mettere prima una clip dell’originale… Però è stato bello. Quest’anno sono stato a sanremo 12 secondi per cantare con alexia e lavezzi, una bella canzone. Ricordo che poi al derby ho incontrato Luca Laurenti con cui mi sono scusato per non averlo salutato e lui mi ha fatto “Perché, eri a Sanremo?”. È una settimana bella che mi piace, ma altro non saprei che fare. Portai anche una canzone tre anni fa, ma Baudo la scartò.

Ha avuto contatti con Sky?
Non ho sentito nessuno. Per dire la verità non ho sentito nessuno di nessuna rete. Chi mi chiama di solito sono i conduttori, come Carlo Conti. L’ultima esperienza diretta è stata Colpo di Genio con la Ventura, ma in questo paese se finisci nel posto sbagliato al momento sbagliato puoi finire travolto dal flop. Era un format vecchissimo, ricordava i Cervelloni. C’erano ottimi autori, ma è chiaro che uno che inventa il cucchiaio che gira da solo il sugo non può interessare a tutta l’Italia.

Ci parli dello spettacolo. Perché “La compagnia dei Giovani”?
Beh, fate conto che il più giovane sono io. Quindi si parte dai 65 in su. A parte gli scherzi, ho voluto fare uno spettacolo su artisti italiani che hanno conquistato il mondo e che noi abbiamo dimenticato. Uno di questi è Tony Dallara: le sue canzoni sono state cantate dai Platters, ha vinto due festival in Spagna, uno in Giappone e uno in Corea. Cantando in coreano. E poi Nicola di Bari idolo in sudamerica. Toto Cutugno in Russia… e noi non lo sappiamo. Io voglio far ricordare al pubblico italiano questi grandi protagonisti di qualche anno fa. Con me ci saranno Armando Celso e Mario Lavezzi, con cui ho iniziato la mia carriera di cantante nei primi anni 60, fino a quando ho lasciato il mio primo gruppo beat. Prima dell’epoca del Clan.

Ecco, il Clan. Una delle sue imitazioni preferite è sempre stata quella di Celentano. Ma che rapporto ha con lui?
Con il Clan non si combinava niente. Tutti venivano e chiedevano di Adriano, solo di lui. E lui sempre a dire “non posso, prendete Don Backy”. E il povero Don Backy che diceva “cosa devo fare, vogliono te”. Una volta indico me, e mi mandarono a fare un Festival di Napoli. Dove mi misi a ballare un po’ in stile beat e mi dettero pure del ricchione. Cose che capitavano. Comunque quando c’è Adriano di mezzo c’è solo lui e basta. Anzi, bisogna sfatare questa storia della mia amicizia con celentano. Prima di tutto sì, eravamo amici, ma avendo io sette anni meno di lui ero un ragazzino e mi calcolava come tale. E poi penso che la coppia Celentano-Mori viva in simbiosi, per loro stessi. Sono strani, non si capta niente da loro due, se credi di far carriera vicino a Celentano te lo puoi scordare. Sono un po’ egoisti.

Come giudica i giovani comici di oggi?
C’è una differenza abissale tra il percorso che dovevamo fare noi e quello dei ragazzi di oggi. Noi quando eravamo giovani dovevamo lavorare molti anni prima di avere l’occasione giusta. Al Derby quando arrivavi facevi l’apertura o la chiusura, quando non c’era nessuno. Non era un castigo, era la prassi. Poi andando avanti potevi progredire fino a centro serata. Cochi e Renato hanno fatto la chiusura per cinque anni, io sono stato al cabaret 16 anni prima di sbarcare nella prima televisione locale. Oggi i giovani vanno in tv, fanno il loro sketch, in pratica sono già in prima linea. Il rovescio della medaglia è che rischiano di sparire presto.

Rimpiange qualcosa delle sue scelte? Per esempio, le famose liti con le produzioni televisive?
Io ho avuto molte discussioni, anche pesanti, con quelli che fanno la televisione oggi. Secondo me fanno cose sbagliate, ma alla fine hanno vinto loro. Per esempio con Ricci a Paperissima avevamo un accordo che lui metteva i filmati con gli errori e io facevo lo studio. Alla prima puntata mi arrivarono 13 copioni già scritti: ma io sono autore di me stesso, e non accettai. E litigai con Ricci. Litigai con Fatma Ruffini (produttrice Mediaset, ndr) perchè poteva tagliare gli sketch a sua discrezione, cosa che nessun artista può accettare. Io mi ritengo un artista libero, faccio tanta fatica nella vita ma non rimpiango nulla. E a 64 anni credo che sia la cosa più importante.

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