[oblo_image id=”1″]Battista Gioia detto Gianni. Di mestiere falegname, di fama “artista della nostra eparchia”. Parola di Ercole Lupinacci, vescovo di Lungro (Cs). Ne ha parlato il Tg Calabria giusto un anno fa. Il quarantenne arberësh di Frascineto (Cs) sarebbe uno dei pochi italiani – se non addirittura l’unico – in grado di progettare e costruire le iconostasi bizantine. Ovvero “l’ornamento fondamentale delle chiese italo-albanesi dell’eparchia (diocesi, ndr) greca di Lungro”, secondo il parroco papas Antonio Bellusci.
[oblo_image id=”5″]Ci troviamo in pieno Parco Nazionale Pollino tra Calabria e Basilicata, nell’enclave culturale italo-albanese di rito bizantino. Un concentrato di natura e di peculiare storia millenaria, unica nel suo genere. Qualcosa di simile c’è solo in Sicilia, (la Piana degli albanesi) e nella zona dei Castelli romani vicino la capitale (l’abbazia basiliana di Grottaferrata).
Coprotagonista di quest’insolito quanto sorprendente viaggio nella provincia italiana, l’iconostasi è, in prima battuta: “una parete con tre porte che separa l’altare dalla navata del popolo. E in cui sono riposte le sacre icone…”. E’ questo, certo. Ma è molto altro ancora. Quando entro nel laboratorio di via Crati 24, la prima cosa che chiedo a Gianni (i convenevoli del “lei…” sono stati risolti in fondo al parcheggio) è di poter scattare qualche foto: postazioni di lavoro così è difficile trovarne ormai anche da queste parti d’Italia. Il profumo di legno e colla, ti s’attacca subito addosso. Ed è un piacere di ricordi.
[oblo_image id=”7″]Gioia parla del suo lavoro, dei suoi arnesi, del legno; non ho nemmeno bisogno di fare domande. Mi limito a seguirlo tra i tavoli e le assi di legno grezzo, annotando sull’agenda quello che più m’interessa. Mi racconta, ad esempio, che quella sua bottega, così bella profonda e larga, non gli è bastata per farci stare tutta intera l’ultima iconostasi destinata alla chiesa di San Benedetto Ullano (Cosenza). Mi spiega, mimandone la grandezza con i gesti larghi delle braccia come se si trattasse dello scafo di una nave vichinga, che la parete sacra l’ha dovuta spezzettare, tanto era ingombrante.
Comincio a toccare con mano la consistenza del fenomeno Gioia. Il padre contadino e la madre casalinga. Una terza media serale. A tredici anni, però, “vara” un modellino di nave di soli fiammiferi. Poi gli anni da apprendista falegname sotto Carmine Murianni, un artigiano della vicina Castrovillari (Cs). Ma è la sua prima opera d’arte sacra: un battistero ad immersione in legno, a fargli imboccare la strada che gli ha procurato l’attuale notorietà nella comunità italo-albanese in cui vive.
Lungimiranza da imprenditore puro o passione per l’artigianato che si fa arte? Forse entrambe le cose.
[oblo_image id=”9″] Ha aperto il laboratorio circa vent’anni fa, il maestro Gioia. Firmando capolavori che chiunque può ammirare: tabernacoli, fonti, leggii, troni vescovili ma, soprattutto, iconostasi. Solo in legno di tiglio. Perché, gli chiedo. “Perché il tiglio è un legno povero, economico che mi consente di fare preventivi accettabili – risponde l’imprenditore – e perché è tenero da lavorare” risponde l’artista. L’ultima opera che ha realizzato me la mostra mentre papas Belluscio sta celebrando messa: un trono vescovile in legno con un’incisione per il novantesimo dell’Eparchia di Lungro.
***image11***Una curiosità. Ventiquattromila euro e un anno di lavoro per una delle sue iconostasi. Per disegnarla, progettarla, eseguirla, trasportarla, montarla. Tutto da solo. Tutto a mano. Un lavoro certosino d’incisioni, di punzonature, di incastri, di tagli. E poi di misure prese e ripetute, di calcoli fatti e rifatti, di prove e proporzioni. Un lavoraccio che vale molto di più. Confessa. Ma, dall’espressione del volto, Gianni Gioia fa filtrare solo soddisfazione. Se non fosse per quella punta di sarcasmo per un “sistema paese” che continua a sfornare solo laureati, dice lui, quando occorrerebbero anche giovani capaci di modellare la materia. La prova, a suo dire, è che di lavoro ne ha così tanto che spesso è costretto rinunciarvi.
E’ quasi ora di pranzo ed è pure domenica. Un’ultima domanda: progetti per il futuro, maestro? E lui: “Vorrei realizzare otto modellini di nostre chiese e abbellirne gli interni con tutte le opere che ho fatto finora”. Pausa. Un’altra ancora. Alla fine gli sorrido, lo saluto e me ne parto senza aggiungere nient’altro. In macchina – sempre lo stesso cd dei Led Zeppelin, il IV – ripenso a quell’ultima risposta. Una risposta geniale, penso. Mi scappa un: da falegname di Dio.