Ci sono molti modi di esprimere la diversità. C’è chi la subisce, e soffre chiuso all’interno del suo guscio. C’è chi la usa come un’arma, brandendola nei confronti di chi non la pensa come lui. E c’è chi asseconda la propria natura, facendo probabilmente l’unica cosa possibile. E giusta.

[oblo_image id=”1″]“Viola di mare”, primo film italiano in concorso al Festival del Cinema di Roma, cade in un periodo in cui di omosessualità si parla molto. Intolleranza diffusa, leggi respinte, manifestazioni di piazza. E ci racconta una storia di quasi un secolo fa che, partendo dai pregiudizi di una piccola comunità isolana della Sicilia, ci immerge poco alla volta ma con forza in una dimensione (appunto) “diversa”. Una ragazza che vuole un’altra ragazza, che la desidera fino al punto di diventare uomo (sulla carta: si sa, le anagrafi al tempo potevano sbagliare), e che semplicemente segue la propria natura di creatura innamorata di un’altra creatura.

La vera forza del film di Donatella Maiorca, assecondata in pieno dalle bravissime Valeria Solarino e Isabella Ragonese (e dalla scossa rock-sinfonica della musica di Gianna Nannini, protagonista in sala), è quella di raccontare semplicemente una storia d’amore. Certo, non si può essere ipocriti: il contesto è strano, lo spettatore resta spesso spiazzato, al limite della perplessità ridanciana. Ma poco a poco tutto comincia a ricomporsi in uno scenario dove la natura è padrona, e dove tutto intorno diventa appunto “naturale”. “C’è un solo modo di volersi bene”, dice a un certo punto l’Angela/Angelo della Solarino: e colpisce quel “tu me l’hai mandata, io non te l’ho chiesta” nella preghiera che Sara/Ragonese rivolge al cielo per conoscere il destino del suo amore. Una natura che si ribella, però, quando si cerca di andare contro le sue leggi, desiderando un figlio laddove non ci può essere. E che nel suo ruolo di giustizia superiore si vendica nel modo più atroce.

Un ottimo spunto di riflessione in un Festival che dimostra, pur senza fuochi d’artificio, un’apertura culturale che molti avevano temuto compromessa con la nuova gestione Rondi, che sta invece dispensando buon senso e ottima sensibilità. E un tocco di glamour che non guasta anche in questo venerdì, soprattutto grazie all’arrivo di Richard Gere in passerella a presentare “Hachiko: a dog’s story” assieme al cane in questione, tempestato di foto quasi quanto l’ex ufficiale e gentiluomo, in piena forma e disponibile come di consueto. Amabile (molto), direbbero le signore. Peggio per i loro compagni in crisi di gelosia: noblesse oblige.

Tra le altre proposte della giornata, James Ivory ha presentato il suo “The city of your final destination”, bello ma forse un po’ datato. Rimandato a un aiuto regista più giovane. Potevamo fare a meno invece dell’incontro tra Gabriele Muccino e Giuseppe Tornatore. Certo, confronto interessante tra generazioni, ma troppo al limite dell’autoesaltazione. Direte voi, che potevamo aspettarci dal regista dell’”Ultimo bacio”? Forse solo di non trascinare anche il collega nel vortice. Sarà per la prossima volta.

Infine, un ricordo per chi poteva essere un grande e non lo sarà più. E forse non è un caso che, nel giorno di “Viola di mare”, Roma renda il primo omaggio a Heath Ledger, grande talento scomparso da poco più di un anno che proprio grazie a un film come “Brokeback Mountain”, cui probabilmente la pellicola della Maiorca deve molto, salì alla ribalta del cinema mondiale. Senza riuscire a reggerne il peso. Un documentario ci ha raccontato quello che era, che è Heath. Aspettando domenica, quando Terry Gilliam verrà a presentare il suo “Parnassus”, incompiuto per l’attore ma completato grazie a un atto d’amore di tre amici illustri. Ma ogni cosa, come sempre, al tempo debito.

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