[oblo_image id=”1″] Alcune cose te le spieghi, altre semplicemente le ammiri. Veder giocare Federer è un piacere che dura ormai da quasi quindici anni, ma in pochi pensavano che ormai quasi trentunenne potesse alzare per la settima volta al cielo la coppa di Wimbledon con la ciliegina del primo posto ritrovato in classifica. In finale ha domato il beniamino di casa, lo scozzese Andy Murray per 4-6, 7-5, 6-3, 6-4: gli inglesi a cui manca il successo dal 1936 dovranno attendere ancora ma hanno poco da rimproverare al proprio pupillo. Come ammesso dallo stesso Murray nell’emozionante cerimonia post partita, in troppi avevano frettolosamente dato per finito Federer che invece, ha regalato gemme di talento così luccicanti da meritarsi l’applauso degli spettatori del Centrale (oltre che quelli dei campi satelliti: incredibile ma vero, in migliaia hanno accettato una coda di 24 ore pur di godersi il match dai maxischermi).
Eppure Murray era partito con il piede giusto impostando tatticamente il duello in modo magistrale: nel primo set inchiodava lo svizzero sulla diagonale del rovescio dimostrandosi intraprendente nei momenti chiave. Teneva il servizio al termine di un interminabile game sul 4-4 per poi chiudere il parziale strappando la battuta al rivale con una difesa strenua da fondo campo. Nel secondo parziale regnava l’equilibrio finchè sul 6-5 Federer decideva di scrivere un’altra pagina leggendaria di tennis. Sul 30-30 si inventava un’illogica volée smorzata giocata a quattro metri dalla rete procurandosi un set point. Un colpo innaturale per tutti i mortali che lo svizzero, però, aveva la sfacciataggine di ripetere pochi secondi dopo – stavolta dalla parte del rovescio – sigillando il set e lasciando allo scozzese la frustrante sensazione di trovarsi qualcosa di troppo grande dall’altra parte della rete.
Arrivava la pioggia che costringeva alla sospensione e alla chiusura del tetto. Alla ripresa, le condizioni indoor rendevano più veloce il campo dando un’ulteriore stoccata alle velleità di Murray. Federer sostenuto dal servizio e dal dritto diveniva inarrestabile (da antologia la finta di drop seguita da un appoggio lungolinea degno di un’illusionista) e con un break per set sanciva la fine della contesa. Come avviene per i grandi, ha alzato il proprio livello di gioco turno dopo turno man mano che gli avversari divenivano più temibili: ha rischiato contro Benneteau – il francese è stato per sei volte a due punti dal match –, ha ovviato con il talento del braccio ai problemi alla schiena accusati contro il belga Malisse per poi presentarsi al meglio contro Djokovic e Murray. Lo scozzese ha poco su cui recriminare: l’ossessione di non aver ancora centrato un titolo dello Slam deve essere accompagnata dalla certezza di aver perso più che per meriti avversari che per colpe proprie. In fondo, anche il suo allenatore Ivan Lendl perse 4 finali prima di agguantare il primo Slam: le lacrime della premiazione non devono cancellare un torneo vissuto da protagonista assoluto e la consapevolezza di essere ormai pronto per insidiare stabilmente i “fabulous three”.
Su Federer è difficile aggiungere altro: diciassettesimo titolo dello Slam, settimo a Wimbledon, ritorno alla prima posizione del ranking e soprattutto la lezione che si può aver voglia di lavorare per migliorarsi anche a 31 anni e con una bacheca straboccante di trofei. Tra due settimane ci saranno le Olimpiadi che daranno a molti delusi l’occasione di prendersi la rivincita. Ma ora la festa è tutta per re Roger d’Inghilterra.

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