[oblo_image id=”1″] L’accusa non è mossa dal moralismo o dall’invidia. Lo spettacolo lo fanno loro. Scendono in campo, decidono le fortune o le sfortune delle loro squadre. Normale, quindi, che i maggiori beneficiari del business del pallone siano i calciatori e che il conto in banca sia accompagnato da una notorietà sconosciuta a tutti gli altri sportivi. Allo stesso modo non ha alcun senso scandalizzarsi per come si comportano nella loro vita privata o colpevolizzarli se compaiono sulla copertina delle riviste patinate. Ma permetteteci di dire che quei novanta minuti in cui scendono in campo sotto lo squardo di migliaia di tifosi allo stadio e di milioni di appassionati alla televisione dovrebbero essere accompagnati da un atteggiamento decoroso. E, invece, la trentaquattresima giornata ha presentato momenti di isteria collettiva che non possono passare inosservati. Certo, la tensione a quattro giornate dalla fine sale alle stelle e spesso anche gli arbitri non si dimostrano all’altezza commettendo errori macroscopici. Ma queste sono attenuanti generiche, non giustificazioni. Il secondo tempo di Parma-Napoli ha ricordato più un western di serie B che una partita di calcio di serie A con tanto di minacce, risse da saloon e una sorta di caccia all’uomo collettiva. Bisogna fare attenzione a non farsi ingannare dalla logica della consequenzialità degli eventi. Il signor Ayroldi ha sbagliato in modo marchiano nel concedere al Napoli un rigore fasullo e nell’espellere l’incolpevole Mariga. Ma sostenere che quella decisione sbagliata è responsabile dell’atteggiamento dei giocatori ducali nella ripresa è pericoloso. Gli errori non si annullano, si sommano. Un arbitro può sbagliare – e può essere sanzionato – ma ciò non autorizza i giocatori a perdere ogni controllo con interventi così violenti da apparire premeditati. Non stiamo parlando di alunni di una scuola elementare che cominciano a fare festa appena la maestra si allontana dalla classe. Si tratta di professionisti – peraltro pagati profumatamente – che devono rispettare non solo l’arbitro, ma anche compagni, avversari e tutti quegli appassionati che con il loro attaccamento permettono ai loro contratti di essere a sei cifre. Altro che terzo tempo, bisognerebbe introdurre un corso obbligatorio di autocritica per tutti i calciatori ed insegnare loro che a volte il silenzio d’oro. Prendiamo Totti, probabilmente il patrimonio di talento più ingente del nostro calcio ma che ogni tanto parla a sproposito dentro e fuori dal campo. Nel commentare il grave infortunio rimediato al ginocchio – in bocca al lupo – non ha risparmiato una frecciatina prendendosela con i “gufi”. Con coloro che si sono macchiati del terribile reato di lesa maestà permettendosi addirittura di criticarlo per aver mandato l’arbitro ripetutamente a quel paese (usiamo un eufemismo) durante la gara con l’Udinese. Dovremmo parlare anche di Del Piero e Kaka, due mosche bianche che oltre a regalare triplette sanno stare alla larga da polemiche, provocazioni e cadute di stile. Se qualcuno vuole prendere esempio, faccia pure…