[oblo_image id=”1″]Inaugura sabato 15 novembre, presso il Castello di Legnano, la mostra antologica “Self-portrait”, dedicata all’artista torinese Carol Rama: a novant’anni dalla sua nascita, il direttore artistico di SALe (Spazi Arte a Legnano) Flavio Arensi ha deciso di rivisitare la carriera di questa protagonista dell’arte novecentesca, grazie anche alla collaborazione della curatrice Alexandra Wetzele e al contributo del direttore della Gamec di Bergamo, Giacinto Di Pietrantonio, autore di uno dei saggi in catalogo.

Tra inediti e capisaldi storici, le circa 80 opere raccolte dimostrano la caratura internazionale di Rama, il cui spessore critico viene analizzato a partire dalle forti tematiche affrontate, piuttosto che dalla tradizionale scansione stilistico-cronologica della sua produzione; le sezioni che scandiscono il percorso hanno quindi titoli emblematici, quali “Autoritratti”, “Seduzioni” e “Feticci”.

[oblo_image id=”2″]Nei quadri di Carol Rama rientrano anche il Movimento torinese dell’Arte Concreta (negli anni Cinquanta) e le camere d’aria vent’anni dopo, ma non sono che capitoli di un’esperienza di vita, quella personale dell’artista, nel tentativo continuo di raccontarsi (e raccontare) sinceramente a dispetto delle asettiche affermazioni di principio: figurativa o astratta, riconoscibile per il tratto naif o nella tattilità provocatoria delle superfici, è la fascinazione per la memoria a costituire il filo conduttore della narrazione. Ricorda appunto l’amico Edoardo Sanguineti, Carol ama ripetere di un oggetto che “fa vissuto”, ovvero reca visibilmente la traccia lasciatagli dal tempo, la portata storica di un lungo utilizzo. Se è vero che il tempo logora e corrompe, è pur vero che in quel fatale destino sta l’indizio, forse il senso, di una vita davvero vissuta.

[oblo_image id=”3″]Sorge spontanea un’altra reminiscenza, però, a dispetto di quanto rilevato dalla critica fin’ora. Perchè se è vero che Rama affronta il dramma umano dei corpi che suppurano sgradevoli liquidi (o serpenti), delle fabbriche paterne che chiudono portando il capofamiglia al sucidio, è poi lei stessa ad ammettere di aver aderito al MAC per trovare un rigore alla libertà che si era concessa o, ancora, del tentativo di “addolcire” la tragedia privata nello sforzo della sua comunicazione, ovvero con il colore e lo stile pittorico. Tutto ciò non può che suonare familiare se si richiama la biografia di Paul Klee, che del tratto infantile e della ricostruzione eidetica (ma onirica) fa la sua missione, persino in seno all’ortodossia della Bauhaus. Se si vede in Rama il canto dell’esistenza, allora che sia tutta, ivi compreso il rapporto mai risolto tra l’insopita infanzia (anche dell’umanità) e il dramma della crescita e dell’invecchiamento.
L’informe trova infine una sintesi contenitiva, un abbraccio largo e rispettoso che sarà anche semplicistico, ma è intimo e intimistico. Se Klee appartiene di necessità alla cultura dell’idea tipicamente “prima avanguardia”, Rama declina il gioco della memoria in forme più materiche certo, una vita più “viva”. Ammette il peccato che la mente del “cristallo” svizzero non poteva concepire ancora, sicuro: ma non c’è innocenza, non c’è tenerezza di colore e trattamento che la colpa riscatta? E non è forse questa una condizione tipicamente infantile, che all’opera di Klee in qualità di suo primo cantore possiamo ricondurre?

Flavio Arensi parla di questa mostra come di un proseguimento “sentimentale” di quella monografica dedicata a Kathe Kollwitz, nel 2006. Torna alla ribalta difatti il tema del “coraggio quasi profetico” con qui la donna artista affronta il mondo. Illuminante è la stessa definizione che Carol Rama ha dato di se stessa: “Ho scoperto di essere un’artista quando avevo più o meno 15 anni. Per me ogni problema era uno spunto. Invece di essere come le altre donne, pettegola e rompiscatole, io disegnavo.”

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