Ognuno di noi ha il proprio spazio interiore. In ogni caso, io sono l’unico che può effettuare un viaggio solitario dentro me stesso. Nessuno mi può accompagnare. Il risultato in immagini di quest’avventura, se ne sarò capace, rappresenterà la mia unicità. Si potrebbe terminare qui, ma qualche pensiero è lì a chiedere un po’ d’attenzione in più.
Nel corso delle mie passeggiate meditative, è capitato di riflettere su questi significati, soprattutto trovandomi di fronte alle fotografie di Tina Modotti. Trecento opere esposte a Torino, presso Camera, che raccontano – come introduce il curatore – “la poliedricità, le peculiarità artistiche, l’indole curiosa, partecipe e libera di Modotti, che durante la sua breve ma intensa carriera è riuscita a catturare l’intensità e i contrasti dei mondi che ha attraversato, espressi con ritratti di vita quotidiana, raccontando anche e soprattutto l’ingiustizia, il lavoro, l’attivismo politico, la povertà, le contraddizioni del progresso e del passaggio alla modernità”. Con queste parole si accompagna il visitatore a contemplare il viaggio solitario compiuto dall’autrice nel periodo 1926-1929. Solitario soprattutto perché volle partire da sola e vivere l’esperienza individualmente.
Mi è parso di leggere, specialmente nelle immagini che ritraggono le strade e le piazze del Messico, che quello fu un tempo difficile. Ricco di sommosse e di rivolte popolari, per una donna da sola con una grossa macchina fotografica, non deve essere stato facile muoversi senza destare qualche attenzione particolare. Osservando le foto da vicino – alcune sono stampe a contatto dalle lastre formato quattro per cinque pollici – mi sembrava di vederla armeggiare con quella “scatola” ingombrante e di certo non tanto leggera (la Modotti preferiva un apparecchio Graflex – a lastra singola – con maniglia, quindi considerato “portatile”). Senza contare che ogni scatto è stato un evento unico – non c’era ancora il rullino multipose – dunque buona la prima! Per questo alcune istantanee risultano leggermente sfocate o mosse. Comunque, anche con qualche lieve imperfezione tecnica, da quelle immagini emergono passione, empatia e profondo rispetto verso i soggetti ripresi. Nei ritratti c’è la spontaneità e la curiosità di chi, soprattutto donne e bambini, a mala pena poteva immaginare cosa fosse quell’oggetto puntato sul suo volto.
Ad un certo punto della mostra, dove l’autrice ha documentato luoghi e vita quotidiana, mi è tornato in mente ciò che vedevo da bambino nei telefilm degli anni ‘60: i campesinos vestiti di bianco, col sombrero, nei campi e nelle nelle piazze dove, da un momento all’altro, compariva Zorro con i soldati all’inseguimento. Non è per sminuire, il personaggio pare sia esistito veramente; anzi, quei cortometraggi per ragazzi erano realizzati con molta fedeltà agli ambienti ed ai costumi originali.
Da quelle foto emergono quindi sensazioni che sottolineano alcuni fattori fortemente caratterizzanti del viaggio solitario: l’avventura umana della ricerca interiore è esclusivamente riservata ad ognuno di noi, come entità singola ma facente parte del Tutto. Ogni persona è una goccia d’acqua, che apparentemente si sente separata dalle altre. È soltanto un’illusione: quando si percepisce il senso di Unità si diventa consapevoli che ogni singola goccia deve fondersi con tutte le altre, per dare vita all’oceano.