[oblo_image id=”1″]E’ terminata questa domenica la mostra Fashion Victims, organizzata dal collettivo universitario StatArt presso il Dynamo di piazza Greco, a Milano. La rassegna, curata da Jessica Paolillo e Stefania Ramella, è stata volutamente inaugurata in concomitanza con la celebre Settimana della Moda Donna meneghina, ponendosi quindi il proposito d’instaurare con questo fenomeno sociale un confronto a distanza. A giudicare dalle note critico-informative di accompagnamento all’esibizione, risultava evidente che le opere in mostra fossero state in realtà intese come una forma di denuncia chiara ed irrevocabile, nei confronti di un immaginario collettivo che costruisce una donna artificiale che ha però la pretesa di essere attualizzabile, sostituendosi forzatamente alla realtà di fatto e negandone la naturale accettazione.

[oblo_image id=”2″]Della selezione proposta, si nota però una sostanziale disomogeneità nei risultati. E’ un rischio in cui si incorre gioco forza, nel momento in cui si decide di esporre in uno stesso spazio la bellezza di otto autori differenti, per giunta emergenti; anzi, merita di essere sottolineata la coerenza ottenuta mediante la scelta dei formati e dei mezzi espressivi (dipinti o lavori grafico-fotografici sempre di media-piccola dimensione). Il dubbio si sposta casomai proprio sul piano iconologico, dal momento che molte delle opere subiscono loro malgrado giusto il fascino di quel mito estetico che intenderebbero demolire: in particolare, il Collettivo d’Arte Necessariamente Post- (Gabriele Colarossi, Carlo Paci, Filippo Uguccioni, Tito Gargamelli, Alberto Miliffi, Paola Magdy Abdel Aziz) ripropone spesso la seduzione indiscussa del corpo-oggetto, senza riuscire a metterlo efficacemente in dubbio. Si prenda ad esempio Vomito d’artista, in cui l’operazione concettuale non riesce a sminuire il fatto che pur sempre di belle donne stiamo parlando: splendide schiene chinate sulla tazza del water che, per quanti sgradevoli liquidi possano rigettare, riescono a mantenere una postura elegante e priva di sbavature (anche letterali). Se ritorno alla realtà deve essere, risulta allora più efficace la riproposizione “reale” del mito di Medusa, con tanto di serpenti in plastica a significare una seduzione contemporanea di stampo tremendamente kitsch, che pietrifica solo in quanto tale e non per supposte proprietà incantatorie. O ancora, sostenibile risulta ancora la creazione di un’estetica “normale” nelle fotografie di giovani donne aspiranti rock-star, che però di certe icone dello spettacolo hanno solo le tinte acide, così decontestualizzate da non risultare più bilanciate e, in ultima analisi, piacevoli in modo rassicurante.

[oblo_image id=”3″]A riguardo invece del corpus di lavori firmati da Alice Arisu e Beatrice Morabito, artiste “singole”, si esprime qui un pieno apprezzamento. La seconda conduce una sorta di intervento sadico, su quello che risulta il primo sistema coercitivo messo in atto dalla società sulle più giovani generazioni: le bambole per bambine, splendidi esseri alieni la cui vita risulterebbe troppo stretta per sostenere un corpo reale, ma che le piccole si trovano tra le mani da subito, assumendolo come (unico) modello femminile degno di essere così definito; ben sta che questi fantocci si trovino infine intrappolati dalla Morabito in collane di perle e fili di seta, mostrando il lato inquietante e auto-impositivo della propria bellezza, che pure può restare intatta… ma a quale costo? Particolarmente originale, infine, la riflessione condotta da Alice Arisu a proposito dell’evoluzione temporale che i canoni della bellezza hanno conosciuto: in un mood che s’ispira patentemente al dadaismo, ironico sì ma calato nel sociale, l’artista semplicemente “cita” manifesti del boom economico o quadri famosi (firmati da grandi “esteti” quali Botticelli e Klimt) facendo notare con frasi ad effetto quanto avrebbe da ridire a riguardo un chirurgo estetico dei giorni nostri. Il modo migliore per smontare, letteralmente, il falso mito della bellezza eterna e “naturale”, quando invece è un palese prodotto di una cultura limitata per spazio e tempo.

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