[oblo_image id=”1″] Il 17 marzo 2012 un barcone con a bordo una sessantina di persone provenienti dalla Libia è stato soccorso a sud di Lampedusa. Cinque di questi disperati non ce l’hanno fatta, erano a bordo ma senza vita. Il giorno prima, a Lampedusa, era arrivato un altro carico di cinquantaquattro migranti. Notizie di tutti i giorni, notizie a cui ormai siamo tristemente abituati. Quasi non fa più effetto sapere che folle di esseri umani di serie B sono pronti a tutto pur di fuggire dalla miseria, dalla guerra, dalla fame, dai massacri. È un loro problema, noi abbiamo i nostri, non possiamo preoccuparci di tutto.

È vero, la ragione non sta mai da una sola parte. Hanno ragione i Lampedusani a ribellarsi e a insorgere temendo per le proprie vite, per il degrado della loro splendida isola, per le epidemie, per il turismo che si contrae inevitabilmente. Hanno ragione a diventare xenofobi o apertamente razzisti, vedendosi sottrarre gli spazi vitali, le risorse, la vita di sempre. Non tutti nascono eroi pronti a porgere l’altra guancia e, ad ogni modo, l’istinto di sopravvivenza è radicato anche nella più nobile delle nature umane. Dall’altra parte, però, ci sono ragioni ancora più forti, esigenze ancora più pressanti, vite che urlano con molta più forza in corpo perché loro, la morte, l’hanno veramente vista in faccia. Questo è quello che noi non riusciamo a capire di loro, di questi clandestini senza pudore che ci insozzano le coste e ci invadono le terre: noi non possiamo capire che quando vedi la morte in faccia né il razzismo italo-franco-maltese, né le parole dure dei politici europei, né le minacce di rimpatrio o di incarcerazione, né i barconi di fortuna o il mare grosso ti possono più fare paura. Se solo avessero un po’ di amor proprio, un po’ di dignità, un po’ di paura della morte non salirebbero su quei legni di fortuna, non sfiderebbero il mare e le leggi severe contro i clandestini, non si umilierebbero a farsi raccattare mezzi morti da braccia straniere e a implorare di essere accolti in paesi che non li vogliono. Non sono più uomini, hanno perso la dignità, ai nostri occhi sono carichi di carne invadente, ingombrante, da rispedire presto laggiù da dove è arrivata. Non c’è, non ci può essere umanità dietro quegli occhi allampanati e impauriti, dietro a quegli odori disgustosi, dietro a quelle preghiere di salvezza, dietro a vite che pendono da un filo sottile tenuto all’altro capo da noi.

Ogni volta che sento uscire da bocche italiane parole di odio contro gli africani, gli immigrati, i vu cumprà mi si presenta immediatamente alla mente l’immagine vivida dei capponi di Renzo nei Promessi Sposi. La guerra tra poveri, poveri di cultura e di buon senso prima di tutto. I poveri che lottano per sopravvivere e che sono incattiviti dalla fame proprio come gli animali selvatici, proprio come la tigre che, quando ha fame e sa che se non mangia morirà, non si pone neppure per un istante il problema etico che la sua sopravvivenza significa morte per la gazzella. Siamo affamati forse. Affamati di cultura, affamati di informazione, affamati di civiltà. Siamo gli stessi che si commuovono a vedere un cagnolino abbandonato o un gattino ferito. Siamo quelli che vanno in chiesa, che pregano e che si sentono, tutto sommato, buoni. Ma quando si parla di loro, degli uomini di serie B, subiamo una repentina mutazione e, anche i migliori, i più istruiti, i più colti, i più generosi incappano in facili e sbrigative considerazioni circa l’impossibilità di accoglierli tutti e la necessità di adottare misure più severe, seguendo gli esempi virtuosi di altri paesi che “sul loro territorio non li fanno entrare, e noi invece dobbiamo prenderceli tutti?”. L’Italia non può sostenere questo carico tutta da sola, con un’Europa che se ne frega e pensa a come salvare noialtri, a nostra volta, dall’abisso del debito pubblico. E noi dovremmo salvare da un abisso meno metaforico chi sta peggio di noi? Non è il momento, non possiamo permettercelo e, in ogni caso, quando non si sa più cosa dire, si tira fuori lo slogan “ce lo chiede l’Europa”. L’Europa, questo essere mitologico inesistente a livello storico, questa macedonia di paesi diversi che hanno una sola cosa in comune: l’essere da centinaia di anni i predoni del mondo, i conquistatori prima, i colonialisti poi, gli sfruttatori di manodopera, i più grandi assetati di petrolio, i maggiori responsabili degli sprechi di cibo e di energia, dell’inquinamento, della distruzione degli ecosistemi, e di una distribuzione totalmente impari delle risorse del pianeta. Cos’altro hanno in comune i virtuosi paesi della civilissima Europa che ora rischiano il baratro pur avendo per secoli fatto razzia di tutto ciò che trovavano sul loro percorso? Dove passa un europeo non cresce più l’erba. E neanche tanto metaforicamente.

Una scintilla c’è. Un barlume tenue di speranza si intravede, di tanto in tanto. Qualcuno osa sentirsi meno europeo e più africano. Qualcuno infrange le leggi. Qualcuno tende le braccia ai disperati, li avvolge nelle coperte, li tratta come esseri umani. Qualche regista scrive una sceneggiatura di un film che dovrebbe essere proiettato in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Qualche scrittore racconta il dramma dell’emigrazione, della perdita delle radici, del sentirsi stranieri per tutta la vita. Qualcuno si stacca dal coro e osa essere come l’Antigone di Sofocle che, in barba alle leggi umane, obbedisce alle leggi sacre e dà sepoltura al cadavere del fratello nonostante il divieto esplicito del re. Qualcuno sostiene che esiste ancora una legge universale che sta al sopra di qualsiasi legge fatta dagli uomini.

Esiste una legge non scritta che dice pressapoco così “se un uomo sta morendo, è tuo dovere salvarlo”. Se l’Europa non è d’accordo me ne infischio. Io devo salvare un uomo che chiede aiuto, io non posso sottrarmi a questo obbligo morale, non importa se poi farò la fine di Antigone. Il vecchio pescatore Ernesto, nonno del protagonista del film Terraferma di Emanuele Crialese, soccorre i profughi nonostante il divieto vigente sull’isola. La vecchia legge dei marinai stabilisce così e poco contano le nuove direttive salva-turismo. Similmente Vito, il protagonista di Mare al mattino, l’ultimo libro di Margaret Mazzantini, è un ragazzino siciliano che guarda il mare di fronte a sé. Anche sua madre è stata sradicata dalla sua terra natale, la Libia, quando negli anni ’70 Gheddafi ha forzatamente rispedito in patria tutti gli esponenti della comunità italiana di Tripoli. Ecco cosa ha visto e cosa ha pensato Vito.

Ha visto il degrado, il porcile. Le schiene dei ragazzi contro il muro, i militari che gli toglievano i lacci delle scarpe e le cinture. Ha visto la gara degli aiuti, i panni trovati per i bambini, le collette dei poveri davvero incazzati, perché Gesù Cristo chiede sempre a loro. Ha visto la saturazione, la paura delle epidemie. La gente protestare, bloccare i moli, gli approdi. E poi ricominciare, buttarsi nel mare in piena notte per tirare su quei disperati che nemmeno sanno nuotare. E non sai davvero chi salvi, magari un avanzo di galera. Uno che ti ruberà il cellulare, che guiderà contromano ubriaco, che stuprerà una ragazza, un’infermiera che torna a casa dal turno di notte.

Ne ha sentiti di discorsi così Vito, affastellati, rozzi. La rabbia dei poveri contro gli altri poveri. Salvare il tuo assassino, forse è questa la carità. Ma qui nessuno è un santo. E il mondo non dovrebbe aver bisogno di martiri, solo di una ripartizione migliore.” (M. Mazzantini – Mare al mattino)

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