Nella prima settimana di settembre, abbiamo assistito alla manifestazione delle due correnti di pensiero scientifiche, oggi vigenti: la paura di superare limiti da non superare, e il bisogno di gloria. Da una parte abbiamo avuto movimenti quasi millenaristici, tesi a mettere un freno alla sete umana di Ulisse, quella della conoscenza, minacciando scenari apocalittici; dall’altra le rassicuranti parole, nella persona di Robert Aymar, che assicura che non ci sono rischi di sorta e che, anche se si formassero, i buchi neri sarebbero comunque minuscoli. Ma andiamo ad analizzare la vicenda in generale, e quella dell’acceleratore del Cern, in particolare.

Un acceleratore di particelle funziona in un modo relativamente semplice, molto simile al tubo catodico, inventato da Thompson alla fine dell’ottocento. Gli acceleratori hanno ampio uso nell’industria, ma è in quel cinque per cento dei casi, quello dedito alla scienza, che rivelano tutto il loro potenziale. Ma torniamo alla loro morfologia.

Un acceleratore di particelle si distingue per la sua forma (rettilinea, curva o spiraliforme) e per le forze chiamate in causa per accelerazione e direzione.

Accelerazione e direzione
La forza che, letteralmente, spara le particelle subatomiche (N.b=protoni, elettroni, positroni e antiprotoni) è costituita da campi elettrostatici, campi elettrici variabili, campi magnetici o altre particelle, la tecnica più avanzata (anche se l’acceleratore LHC non usa questa tecnologia, non è assolutamente da considerarsi arretrato).

Riguardo alla direzione, le particelle, in caso di acceleratori curvilinei o spiraliformi, sono deviate grazie a potenti campi magnetici.

L’acceleratore LHC di Ginevra
Storia
L’acceleratore chiamato Large Hadron Collider è il più complesso strumento scientifico mai creato dall’uomo. Si trova a cento chilometri sottoterra, presso Ginevra, ed è lungo ventitre chilometri, ed è la conclusione di un lavoro iniziato dieci anni fa, e al quale hanno lavorato più di cinquemila persone, tra cui le più emerite menti nel campo della fisica nucleare e astronomica. E’ stato acceso il dieci settembre duemilaotto, con lo scopo di ricreare le condizioni proprie del fenomeno più famoso e meno conosciuto della storia, il Big Bang.

Funzionamento
L’LHC di Ginevra è così chiamato in quanto fa schiantare (Collider) particelle subatomiche come l’adrone, con l’intento di dividerle e rivelare la particella fondamentale, il bosone. Il bosone, infatti, è la particella primordiale, che, dopo qualche miliardesimo di secondo, si è compattato con altri, formando le più proprie particelle subatomiche. Con la collisione, si vuole “spezzare” le particelle, rivelando quella che è solo una loro parte, ormai non più esistente, senza l’intervento di mezzi artificiali. Lungo la parete dell’anello, in cui si è creato il vuoto assoluto, si trovano 1600 magneti raffreddati a – 271.25 °C, grazie ad elio liquido superfluido (quindi anche superconduttore) che, in virtù della carica delle particelle, tendono a deviarle. Le particelle citate, vengono fatte girare a velocità vicine a quella della luce (300.000 Km/s) in direzioni opposte, in modo che si scontrino a velocità altissime. Lungo i 23 chilometri ad anello, ci sono quattro punti di collisione in cui diversi progetti autonomi osservano i fenomeni grazie a sensori sofisticatissimi, analizzando le proprietà delle particelle dopo ogni urto.

Credo sia d’obbligo una nota atta a spiegare quanto sia complicato questo processo, e vorrei citare la “teoria del caos”, secondo cui un sistema caotico è un sistema imprevedibile e suscettibile a variabili. Il funzionamento e la balistica dopo la collisione di particelle, è un sistema estremamente caotico, cosa che rende realmente difficile calcolare una possibile traiettoria. Prendiamo come termine di paragone un’autostrada con delle macchine. Se ora tentassimo di calcolare, non solo quali macchine si scontreranno, quando e dove andranno a finire i pezzi, ci servirebbe una mente scientifica ed un aulin per l’emicrania. Figurarsi, se si parla di particelle subatomiche all’interno di un anello lungo più di venti chilometri.

Acceleratori di particelle e buchi neri
Il rapporto tra particelle infinitesimali e buchi neri sembra incredibilmente improbabile, ma, in realtà, non è così improbabile. I buchi neri, innanzitutto sono il prodotto del collasso di stelle, collasso che, attraverso processi nucleari, comprime tutta la materia della stella, creando un campo magnetico tanto forte da assorbire anche i fotoni cioè i raggi della luce.

Questo –direte– non centra niente con le particelle; invece è molto legato.
Secondo la definizione di massa:
m=mo / √1-V2/c2
In cui “mo” è la massa della materia in assenza di stimoli esterni. Viene da se che, più la velocità aumenta, più la massa aumenta. Questo porta la massa a superare la soglia critica, cioè, la porta a diventare troppa rispetto allo spazio occupato, come succede ai buchi neri. Ciò, evidentemente, porterebbe alla possibile creazione di buchi neri. La risposta del Cern è stata quella legittima che, trattandosi di fenomeni infinitesimali e di brevissima durata, il rischio non potrebbe mai essere quello dei buchi neri siderali, immensamente grandi. Ai posteri l’ardua sentenza

Ringraziamenti sentiti vanno alla collaborazione del professore di Chimica e Biologia Cannarsa, e Quinzi di Fisica, del Liceo Rocci, per la notevole pazienza e collaborazione.

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