[oblo_image id=”1″] Non vorrei essere un toro. E se lo fossi non vorrei morire. Ma se proprio dovesse capitarmi, vorrei farlo in una corrida. Forse. Forse no. Chi la ama è pronto a giurare che la corrida sia una simulazione di una battaglia, un’allegoria dell’eterna lotta dell’uomo con le sue paure. A dirsi suonerà anche bene, ma rimane una menzogna. In una sfida non si conosce il nome del vincitore. In un’arena, il toro perde sempre. E quando il toro perde, muore. Anche la favola della tradizione da custodire ha le sembianze di un alibi fragile, corroso, sapientemente costruito per nascondere le proprie colpe. Per alcuni anche la guerra o le torture sono tradizione. Ci sono cose giuste e cose sbagliate: al massimo divengono tradizionalmente giuste o tradizionalmente sbagliate. La corrida è roba da barbari? Sì. Se ne potrebbe fare a meno? Certo e senza rimpianti. Però bisogna ammettere che c’è un’intima pulsione che la rende affine ad altre pratiche tipicamente e vergognosamente solo umane. Che ci siano migliaia di spettatori pronti a spellarsi le mani per vedere un’esecuzione centellinata e studiata in ogni mossa fa riflettere se non rabbrividire. Ma quanti cavalli sono stati soppressi per aver riportato una semplice frattura ad una zampa in un gara a cui erano giunti dopo essere stati dopati? La corrida rimane una mattanza ma almeno regala un’illusione di speranza per l’animale. Troppo poco per accettarla, abbastanza per non considerarla un universo a sè. Se non ci fosse la corrida, Pamplona sarebbe una città fantasma. Senza la festa di San Firmino, Hemingway avrebbe scritto d’altro. Rimane la speranza che un giorno venga cancellata, ma è lecito chiedere che non si trasformi in una battaglia isolata. I luoghi comuni si sfatano tutti insieme. Se si prova ad estirparli uno alla volta, si ostinano a sopravvivere.

Advertisement