A chiunque abbia visitato una mostra fotografica, in particolare la retrospettiva di un autore, forse è capitato di provare un sentimento di trasporto. È il fascino della retrospettiva, una sensazione di coinvolgimento, come un invito ad “entrare” nell’immagine. Così è stato recentemente, nell’osservare da vicino le affascinanti fotografie in bianco e nero di Margaret Bourke-White, nella mostra allestita presso Camera, a Torino, scattate nel trentennio 1930-1960.
Come me, chi è nato con la fotografia analogica, rimane attratto in primis dalla qualità delle stampe. La carta racconta e il pensiero torna oniricamente alle giornate trascorse in camera oscura. Sembra quasi di vedere le foto esposte come fossero ancora ferme sul piano di proiezione dell’ingranditore; il sogno continua, le vedo apparire a poco a poco, quando il foglio di carta è immerso nel bagno di sviluppo e poi estratto dalla bacinella. Lo si può immaginare ancora disteso e bagnato tra le dita.
Sono le immagini tratte dai suoi reportage più significativi, dalle visioni aeree di New York alle condizioni di lavoro nelle acciaierie, tra ritratti di persone comuni e di personaggi famosi, fino alle drammatiche foto scattate nei lager nazisti.
Intanto l’occhio continua il suo percorso di osservazione. Scansionando ogni elemento che l’autrice ha inquadrato, percepisce prima i dettagli e poi l’insieme del messaggio racchiuso nella cornice. Allorché il segnale visivo giunge al sensore mentale, l’immagine diventa viva: mi sento partecipe, attraverso ogni singolo particolare, del pensiero di chi ha premuto il pulsante di scatto in quell’istante. Ecco che la comunicazione contenuta in quel ritaglio di spazio-tempo arriva alla mia destinazione, mi coinvolge emotivamente, lo sento dentro lo stomaco come uno scossone d’energia.
È questo che succede quando cerco di interpretare la visione, con intenzione ricca di curiosità e di ricerca, soprattutto quando le immagini mostrate rappresentano scene di disagi sociali, pezzi di storia che sono ormai andati ma che hanno lasciato segni profondi, percepibili anche oggi nel nostro vissuto quotidiano.
Vedo qui una delle primissime donne fotografe e reporter di guerra muoversi nei campi minati della società di quel periodo. Tra i pionieri della rivista LIFE – fu scelta una sua foto per la copertina del primo numero – unica fotoreporter straniera ad essere ammessa in Russia, riprese in esclusiva il bombardamento notturno su Mosca da parte dei tedeschi. Sembra anche di poterla seguire, idealmente, là dove i disequilibri del mondo l’hanno portata, per essere testimone diretta, dandole l’opportunità di farcene partecipi. Non riesco a non provare compassione (letteralmente “sentire insieme”), ammirazione, gratitudine. È il fascino della retrospettiva: la fotografia, nel suo essere messa lì a disposizione di chi la “vuole vedere”, diviene una realtà ben diversa dal pensiero ordinario ed è in grado di insegnarci qualcosa di fondamentale, ognuno per la propria evoluzione.