Diplomazia del ping pong : “The ping heard the round world”

Diplomazia del ping pong , Zhuang Zedong e Glenn Cowan
Diplomazia del ping pong , Zhuang Zedong e Glenn Cowan

C’è uno strano silenzio quando qualcuno vorrebbe parlare ma è frenato dalla paura. È il silenzio di una voce che rimane strozzata in gola. Registi e scrittori hanno costruito su quel silenzio scene cult e pagine dense di tensione. Solitamente capita quando uno dei protagonisti è combattuto tra il desiderio di dichiararsi e la paura di essere rifiutato  o rifiutata. Oppure quando due vecchi amici hanno litigato ed entrambi hanno lo scrupolo di fare il primo passo per riavvicinarsi. In quell’angosciante silenzio si è trovato anche Zhuang Zedong, seduto su un ordinario bus nella periferia giapponese. Dieci minuti esatti a chiedersi se fosse il caso di alzarsi per andare a parlare con chi era in fondo nell’ultima fila. Zhuang non aveva alcun palpito amoroso da controllare e non sentiva neanche il bisogno di riappacificarsi perché con quel ragazzo biondo coi capelli un po’ hippy non aveva mai avuto alcun contatto prima. Non conosceva neppure un vocabolo della sua lingua, eppure la curiosità di fare quei pochi passi e accennare un saluto non sfumava.

Capiva che aveva la possibilità con una semplice frase di fermare le lancette della storia e iniziare a farle girare in senso contrario. Ma cosa aveva di così speciale quel biondo adolescente con la faccia non esattamente sveglissima che ascoltava musica in fondo al bus? Sulla carta erano colleghi. Entrambi sportivi, interpreti di una delle disciplina più incredibili che facciano parte del panorama olimpico. Ping pong, un tennis in miniatura, con scambi così rapidi da far incrociare gli occhi. Colleghi, non si può dire rivali perché Zhuang è un’istituzione e il biondo coi capelli hippy poco più di una comparsa. A renderli nemici anche se non si erano mai visti prima sono la scritta e la bandiera che capeggiano sulle loro tute. Un cinese e un americano che per caso si ritrovano su un pullman: ora sembrerebbe l’inizio di una barzelletta, ma nel 1971 era qualcosa di inimmaginabile. Più che silenzio diplomatico, era un gelo paralizzante.

Zhuang se l’era sentito dire da Mao in persona: “Quando colpisci la pallina con la tua racchetta, immagina di colpire il nemico capitalista”. Su quel pullman, Zedong c’era di diritto. Lui era quello non perdeva una partita da un decennio, che aveva vinto  i mondiali per tre volte, che aveva rivoluzionato la tecnica del gioco impugnando la racchetta come non si sarebbe mai visto. Presa penholder, tenere la racchetta come se si trattasse di una penna trasformando la pallina in inchiostro pronta per ricamare ghirigori sul tavolo con traiettorie imprevedibili. Per gli appassionati era già un mito, in patria un simbolo di come un uomo del popolo potesse dar lustro al nome della Cina in giro per il mondo.

E l’altro? Beh, l’altro su quel bus ci era finito davvero per caso. Aveva diciannove anni e aveva visto i mondiali in Giappone come poco più che una vacanza. Diciamo che se vuoi entrare nella nazionale americana scegliere il ping pong anziché basket, baseball o atletica significa togliersi la noia di una concorrenza esasperata. Aveva anche altri interessi, però amava quel gioco ed essere a Nagoya dava la possibilità di guardare i maestri della specialità. Il problema è che si era fermato a guardarli un po’ troppo e non si era accorto che i compagni di squadra erano già tornati in albergo. E lui cosa poteva fare adesso che era solo in una città sconosciuta senza sapere una parola della lingua del posto? Fuori dal palazzetto che ospitava la manifestazione, era rimasto soltanto un pullman. Inutile chiedere a che nazionale appartenesse, bisognava salire per tornare in albergo. E  una volta a bordo, ecco la sorpresa. C’erano giocatori e staff della rappresentativa cinese. Glenn aveva capito che in qualche modo aveva rotto il muro che separava statunitensi e cinesi,  aveva sentore di essere sul punto di passare alla storia ma anche il forte timore di stare per entrarci nel verso sbagliato. E così si era defilato in ultima fila cercando di mimetizzarsi con la tappezzeria del bus. Quasi accovacciato per non dare troppo nell’occhio un po’ come fanno gli studenti quando il professore scorre l’elenco del registro prima di decidere chi interrogare. Il piano di Glenn era semplice: superare senza intoppi i pochi chilometri che separavano la sede di gioco dall’hotel, uscire con uno scatto prodigioso appena arrivati e non dare notizia a nessuno di quanto accaduto.

Zhuang ogni tanto girava il collo per sbirciare l’intruso e si consumava nel dubbio. Lo vedeva con gli occhi impauriti di chi sapeva di aver fatto una gaffe sperando ancora di non avere conseguenze. Aveva ascoltato i discorsi di Mao, ne appoggiava la linea e sapeva che per antonomasia Cina e Usa, comunismo e capitalismo, non potevano andare a braccetto. Però sapeva anche che il proprio Paese si stava infilando in una sorta di isolamento senza ritorno. Non c’era soltanto il gelo con il mondo occidentale, si erano raffreddati drasticamente anche i rapporti con l’Unione Sovietica. In quel 1971, si intuiva che bisognava invertire la rotta: non tanto cercare alleanze ma distendere i rapporti con la controparte. Sfruttando magari le tensioni che crescevano tra le altre superpotenze. Strategia politica internazionale ai massimi livelli: una partita a tre in cui guadagnare bisognava fare un passo avanti per guadagnare spazio stando attenti a non lasciare scoperte le spalle. E lui cosa c’entrava con tutto questo? Lui era solo un campione di ping pong: chi glielo faceva fare  di uscire dall’aurea della sua disciplina per scomodarsi in questioni così spinose? E se poi una sua mossa sbagliata venisse mal interpretata dai gerarchi del regime? Forse, in effetti, era meglio rimanere seduto al proprio posto, finire in silenzio il viaggio e concentrarsi sulle partite del giorno successive e non rischiare ritorsioni da parte delle autorità. Se invece si trattasse di un segno del destino e lui fosse l’uomo giusto al momento giusto? Poi, lasciamo stare la complessità delle manovre ufficiali, l’ambiguità dei giochi di potere, l’incoerenza della diplomazia che in teoria impone di intrecciare rapporti leali e costruttivi con tutti mentre nella pratica non si fa problemi a passare sopra di tutto e sotto di tutto per curare il proprio interesse personale; almeno l’educazione personale rimane un principio imprescindibile. C’è comunque un ospite in casa propria perché il bus della delegazione cinese per chi è abituato a trasferte con la propria nazionale è come una seconda abitazione e va accolto come si conviene.

Finalmente Zhuang si alza per davvero e compie quei dieci passi che lo separano dall’ultima fila dove è sistemato il collega americano. A vederlo da vicino, sovviene un ultimo dubbio: come interlocutore avrebbe preferito un signore dall’aspetto distinto piuttosto che un teeanager capellone apparentemente appena uscito da Woodstock. Per fortuna, Zedong era abile con la parola quanto con la racchetta e se ne esce con una delle frasi più politically correct della storia: “Anche se il governo americano e quello cinese non sono in buoni rapporti, il popolo degli Stati Uniti è nostro amico”. Glenn si fa tradurre la frase da un improvvisato interprete e tira un sospiro di sollievo: è ufficialmente salvo, quel tragitto in bus non si è rivelato un’imboscata. I due cominciano a parlare, evitano i massimi sistemi e dialogano sui mondiali, conversano sul ping pong, scherzano pensando alle partite appena giocate.

Un cinese e un americano stanno parlando a stretto contatto: appena 40 anni fa ciò veniva percepito come uno scoop sensazionale. Zhuang ha un’intuizione: perché non suggellare quell’incontro con un regalo? Cerca nello zainetto qualcosa e accanto alle racchette, a una bottiglietta d’acqua e alle spille motivazionali di Mao, trova una dipinto a mano su seta che raffigura le incantevoli montagne cinesi Huangshan che si affacciano su un laghetto, un souvenir tipico della regione dello Hangzhou. Lo ha sempre considerato un portafortuna e ora vale la pena di sfruttare quel ritratto per sancire un momento storico. Glenn ringrazia e pensa a come ricambiare il dono. Avete presente quando qualcuno inaspettatamente viene a farvi visita in prossimità della feste presentandosi con un bel pacchetto e vi lascia con l’imbarazzo di non sapere  come sdebitarvi? La soluzione migliore sarebbe fingere indifferenza, esprimere riconoscenza e prendere tempo. Invece, spesso, la fretta spinge a cercare qualcosa da riciclare e infiocchettare in tempi da record per poter esclamare con orgoglio: “Anche io ti avevo preso una cosa”. Magari aggiungendo con un briciolo di perfidia mascherata da umiltà:” Non è niente di che, giusto un pensiero, una cazzata” suscitando inevitabilmente nella controparte una sola domanda che vorrebbe essere gridata ai quattro venti ma che rimane soffocata in gola: “Ma se sai anche tu che è una cazzata, perché hai voluto donarla a me? Non potevi tenerla per te dato che io non ti avevo chiesto niente?”. Il povero Glenn Cowan vedendo quella tela magnificamente dipinta, prova lo stesso imbarazzo e inizia a rovistare furiosamente nello zaino alla ricerca di qualcosa con cui completare il baratto. Basterebbe un disco musicale, una foto, un braccialetto, un gadget. Niente. L’unica gemma che pesca dalla sacca è il suo pettine usato: per un attimo pensa anche di porgerlo al campione cinese prima di rinsavire e limitarsi a un più consono “Sorry, ma non posso regalarti un pettine”.

Quando finalmente il bus giunge a destinazione, sono assediati dai cronisti. Mai visti prima e mai visti dopo così tanti giornalisti per una gara di ping pong. “Come è avvenuto l’incontro?”, “Di cosa avete parlato?”, “Le piacerebbe visitare la Cina?”Cowan non era abituato a rispondere alle domande di un’intervista, figurarsi a un’improvvisata conferenza stampa con l’aggravante di replicare a quesiti infarciti da rilevanza politica. Come fare a spiegare che lui non aveva previsto nulla, che era finito su quel bus solo per sbadataggine, che le sue competenze relative alla diplomazia internazionale si limitavano a qualche riunione di college?

Risponde con la freschezza di un diciannovenne curioso di conoscere il mondo: “Sì, vorrei visitare la Cina così come vorrei visitare tutti gli altri Paesi in cui non sono ancora stato”.  Si chiedeva come fosse possibile che un dialogo di pochi minuti tra due giocatori di ping pong potesse essere diventata la principale notizia sui giornali di tutto il mondo: doveva andare a Nagoya per divertimento ed era diventato l’ambasciatore statunitense in territorio nemico. Intanto c’era da sdebitarsi e con un po’ di tempo a disposizione, non era difficile trovare qualcosa di meglio di un pettine consunto. La scelta ricade su una maglietta con la scritta “Let it be”, con omaggio al successo dei Beatles che in quegli stessi anni scandivano le giornate di milioni di giovani a tutte le latitudini, agghindata dal simbolo della pace.

Lo scoop viene riportato anche su Dacankao, la dispensa riservate alle più alte autorità cinesi: quando Mao legge ciò che è successo su quel pullman, il volto sfuma in una smorfia per poi esclamare: “Questo Zhuang è abile tanto con la racchetta quanto nelle relazioni diplomatiche”. L’apertura agli Stati Uniti già ipotizzata ora era a portata di mano. Raccogliendo la richiesta della delegazione a stelle e strisce, il 10 aprile 1971 la squadra americana con il seguito di consorti e dirigenti attraversa il confine e viene ricevuta con tutti gli onori. È il momento preciso in cui viene coniata la fortunata espressione “diplomazia del ping pong”: il disgelo è stato sancito da dei semplici giocatori, la cortina di bambù è stato valicata, ora la politica può stringere gli ultimi nodi. Un anno più tardi, il presidente statunitense Richard Nixon verrà finalmente ricevuto sul suolo cinese: sullo scacchiere della guerra fredda si rivelerà una mossa decisiva. Nel 1979, le due superpotenze sanciranno la ripresa delle “normali” relazioni.

E che fine hanno fatto i due protagonisti del momento in assoluto in cui lo sport è stato veicolo e strumento per distendere tensioni politiche che rischiavano di sgretolare equilibri di pace delicatissimi? Subito dopo quello che il Time intitolò The ping heard round the world, erano divenute due celebrità. Ma l’albo d’oro e il credito nello sport rimangono per sempre, la riconoscenza politica è molto più labile. Glenn Cowan tornando in America scopre una popolarità a cui era del tutto estraneo. La federazione americana cerca di strumentalizzarlo per trasformare una specialità di nicchia in una moda. Ma non è un apprezzamento spontaneo, vogliono sfruttarlo per far aumentare gli interessi economici. E lui crolla. Non tutti nascono per essere al centro della ribalta, non tutti riescono ad accettare di fare parte di un gioco più grande di loro. Comincia ad avere visioni che diventano allucinazioni, si sente spiato, osservato, controllato ovunque. La mente che sognava soltanto di emulare le parabole impossibili disegnate dai maestri orientali su un tavolo da ping pong, è divorata dai fantasmi. Si sente usato e probabilmente è così. Quando Stati Uniti e Cina sanciranno definitivamente il ritorno al dialogo non sono passati molti anni dai mondiali di Nagoya, ma lui è stato già accantonato. Gli hanno proiettato negli occhi un fascio di luce potentissimo, lo hanno accecato e non si sono preoccupati di sapere che fine facesse. Viene ricoverato più volte incapace di riprendere la propria vita normale. E pensare che paradossalmente prima di quell’avventura iridata che tanto aveva sognato, era felice. Ascoltava musica, frequentava i concerti ed era uno dei più ambiti dalle ragazze del college. Ha toccato l’apice troppo presto finendo con il perdersi. Di lui rimane quella foto in cui scambia i doni con il collega cinese a favore dei fotografi.

E Zhuang Zedong? Lui aveva più esperienza, maggiori cognizioni politiche e persino la stima del Gran Capo. E infatti  Mao capisce che poteva affidargli importanti cariche sfruttandone l’immagine apprezzata e idolatrata in tutta la Cina. Zhuang è tra i protagonisti della Rivoluzione Culturale dove era entrato nelle grazie – qualcuno sospettava persino troppo nelle grazie – della moglie dello stesso Mao. Con la morte di Tse Tse Tung e la caduta della Banda dei Quattro, Zedong si ritrova ad essere il capro espiatorio da dare in pasto all’opionione come simbolo della deriva di una certa corrente politica. Trascorre quattro anni di carcere che mettono fine alla carriera del più straordinario interprete di ping pong della storia. Ormai anziano dichiarerà: “In politica ho commesso errori. Vorrei essere ricordato solo come sportivo”. Già come sportivo. Ma anche di lui rimane e rimarrà quella foto in cui scambia il regalo con il suo improvvisato collega americano. E per fortuna che c’è quella foto. Perché se su quel bus non avesse avuto il coraggio di alzarsi, arretrare in ultima fila e salutare con Glenn Cowan, la diplomazia internazionale sarebbe rimasta arenata chissà per quanto tempo ancora. Le foto rimangono, la gratitudine – come sentenziava Aristotele – invecchia presto.

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