L'arrivo di Cathy Freeman nella gara sognata da una vita
L’arrivo di Cathy Freeman nella gara sognata da una vita

La vita è fatta di piccole solitudini raccomandava Roland Barthes. Senza specificare se siano decise da noi stessi o dagli altri, se nascano per annientarci o per farci crescere, se ci sia un modo giusto per affrontarle, superarle o coccolarle come si fa con le migliori compagne di viaggio. Cathy Freeman le sfumature della solitudine le ha conosciute tutte. Si è sentita isolata quando avrebbe voluto camminare tra la gente, ha implorato po’ d’aria quando la folla rischiava di stritolarla col proprio affetto. È stata amata, respinta, idolatrata, forse mai capita. Si pensa che ci si senta soli quando si ha paura, si pensa meno che la paura possa essere trasmessa geneticamente. Avevano convissuto con la paura gli antenati di Cathy, aborigeni nel Queensland. Non bisogna essere latinisti per capire che un “aborigeno” vive nella propria terra da sempre (ab origine). È molto più complesso comprendere come si possa finire per sentirsi stranieri in casa propria, talmente assuefatti all’essere allontanati con disprezzo da ritenersi fuori luogo o inadatti appena si metta piede in un posto sconosciuto. Puoi essere nero e vivere in Australia, non puoi farlo senza che nessuno se ne accorga: “entravamo in una stanza e capivamo che noi e quelli con la pelle come noi eravamo visti come intrusi”. L’orgoglio non è innato, si conquista col tempo, a fatica, trasformando rabbia e paura nella voglia di cambiare le cose. Gli aborigeni australiani sono stati perseguitati per secoli, oltraggiati anche dopo che la legge ne avrebbe dovuto garantire i diritti. Non è stata un’infanzia infelice quella di Cathy, ma vissuta sempre in bilico tra il desiderio di affermarsi e il bisogno di rifugiarsi. Probabilmente avvertiva la solitudine anche quel 25 settembre 2000 quando c’erano 113.000 australiani che si erano alzati in piedi per scandire il suo nome. Volevano sospingerla a conquistare quello che nessun aborigeno aveva mai conquistato prima. Era una solitudine diversa: perché 113.000 che vogliono che tu vinca possono spingerti o diventare una zavorra. Se vinci chiudi un cerchio. Ma se perdi? Beh, se perdi, aggiungi alla solitudine e alla paura anche il senso di colpa. Perché il destino è scritto: devi arrivare primo per celebrare la pace tra chi vuole rialzare la testa e chi si è stancato di sentirsi superiore tendendo finalmente la mano. Ora che l’Australia ti ha eletto come immagine felice della nazione, portabandiera dei giochi a cinque cerchi in casa, proprio adesso che c’è la possibilità di sancire l’accettazione di tutti quelli come te, non puoi permetterti di non tagliare per prima il traguardo.

A parole è facile. Nella realtà, quella gara non puoi essere sicuro di vincerla anche se sei la migliore. Lo chiamano il giro della morte perché si parte al massimo e si finisce al massimo tornando al punto in cui si era partiti. La finale delle Olimpiadi, la gara che aveva sognato da quando aveva iniziato a correre perché “dava un senso di libertà sconosciuto, assoluto” si avvicinava Ma tra l’essere liberi e l’essere soli è questione di passi, di attimi, di centimetri e di centesimi. Chissà cosa avrà pensato quando occhi e telecamere spiavano ogni gesto, smorfia, sussurro. Forse non ha avuto il tempo per pensare a niente . Forse, invece, ha ripercorso la  carriera attraverso pochi fotogrammi. Da quando il patrigno le ha appoggiato una mano sulla spalla convincendola che a correre fosse anche brava. Se non ci fosse stato lui, spolmonarsi su curve e rettilinei sarebbe rimasto un hobby. Nelle categorie giovanili primeggiava dappertutto: 100 metri, 200 metri, salto in alto e salto in lungo. Talmente talentuosa da richiedere il trasferimento a 14 anni in una struttura ad hoc per le promesse dello sport e con l’ausilio di un tecnico professionale come il rumeno Mike Danila. E qui cominciano a manifestarsi le contraddizioni di un sistema che coccola una ragazza perché consapevole che potrà regalare onore e lustro sportivo ma che con occhio distratto non si preoccupa se la stessa ragazza viene discriminata per le sue origini. A 16 anni, Cathy viene convocata per la staffetta australiana ai giochi del Commonwealth. È un fenomeno annunciato e contribuisce in modo decisivo alla vittoria della squadra. Già, ma non manca chi continua a pensare che a un’atleta di colore non doni la maglia della nazionale australiana. Conosce il tecnico Peter Fortune che la seguirà per tutta la carriera instaurando con lei un rapporto di fiducia assoluto, una guida pronta a dispensare consigli o elargire rimproveri all’occorrenza. C’era lui a osservarla quando faceva il giro di pista d’onore dopo la vittoria nei Giochi del Commonwealth nel 1994. O dopo i titoli iridati nel ’97 e nel ’99 ad Atene e Siviglia.

Già, ma anche i ricordi ora non potevano aiutarla a superare la tensione. Strana la vita: passi anni a cercare di essere accettata e ora che tutti ti acclamano, vorresti isolarti. Le tue spalle ti sembrano troppo fragili per reggere le aspettative degli altri, vorresti pensare è solo una gara, ma sai che è qualcosa di più. Ai blocchi di partenza si era presentata con una tuta da astronauta: aerodinamica ,certo, ma così totale da fasciarle i capelli come una calotta. Era un modo per sfumare il frastuono della folla, per concentrarsi su quel giro, su quelle 200 falcate da compiere per tornare da dove si parte e proiettarsi nella leggenda. Sbirciando il volto delle avversarie per scrutarne le sensazioni, per capire se c’era qualcuno che veramente pensasse di poterla battere. Inutile girarci intorno, c’era solo una rivale al suo livello, la stessa che l’aveva battuta nella finale delle Olimpiadi di quattro anni prima. Marie Jose Perec era il suo opposto: non faceva la diva perché diva ci era nata. Altissima, sinuosa, altezzosa, elegante spesso, imbronciata sempre. Dopo aver vinto l’oro a cinque cerchi ad Atlanta si era lasciata andare a un serafico: “Ora sono più famosa di Zidane”. Dicevano che non era in forma, che aveva litigato con tutti, allenatori compresi. Eppure era lei quella da temere. O meglio sarebbe stata da temere se non fosse che la sua corsia ora è vuota. No Perec, adieu. Si saprà dopo che era scappata nella notte, vittima delle sue paure e dei suoi tormenti. Si era giocata l’affetto con le bizze, la popolarità con i capricci, la stima con le sue stravaganze. E adesso come uno studente in preda al panico prima dell’esame di maturità, ha preferito scappare. È uscita dall’aula consegnando il foglio in bianco: che i giornali ci scrivano sopra quello che vogliono. Si inventerà di aver ricevuto minacce e molestie in albergo. Un modo per uscire di scena in linea con il personaggio, ora la ribalta era tutta per Cathy. Ha riguardato per un attimo il suo braccio, anche se la tuta copriva la scritta del suo tatuaggio. Cos I free, perché sono libera: essere libera era quello di cui aveva bisogno dopo che lo starter aveva chiamato all’attenti. La partenza è buona, la falcata sempre ampia, rotonda. Però, nei quattrocento metri c’è sempre un’esitazione, un attimo in cui un’avversaria rompe gli indugi e ti affianca. È la giamaicana Graham ad accelerare sull’ultima curva e a prendere la testa. Per Cathy è una liberazione: ha sempre dato il meglio quando aveva la sensazione che qualcuno le stesse portando via ciò che le spettava. All’ingresso dell’ultimo rettilineo si capisce chi ha ancora energie e chi si sta spegnendo, è in quel punto preciso che si decide la gara. Proprio lì, dove le altre venivamo consumate dalla fatica, dall’acido lattico dai muscoli, dal miraggio di un traguardo che sembra vicino ma che non arriva mai; proprio lì Cathy ritrovava le giuste frequenze uscendo di prepotenza e chiudendo come tutti volevano che chiudesse.

Compiuta la missione non trova neppure la forza per esultare. Si inginocchia a terra, annaspa alla ricerca di aria, di ossigeno, di libertà. La sua prima dichiarazione è: “Sono sollevata di avercela fatta”: non esattamente un messaggio epocale. Non ne ha bisogno perché la storia l’ha già scritta. La libertà è tatuata sulla spalla e nell’anima. Alle frasi a effetto per i giornali ci pensino quelli che hanno qualcosa da nascondere.

Il video della finale di Sidney 2000: http://www.youtube.com/watch?v=oeXpoRIvDPw

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