Il volto di Ana Fidelia Quirot: uno dei simboli di Cuba
Il volto di Ana Fidelia Quirot: uno dei simboli di Cuba

“Non ero più una donna. Ero un mostro. Nulla, non potevo fare nulla: chiudere le mani, alzare le braccia, mangiare da sola. Ho solo urlato. Ho odiato i medici, mia mamma, le mie sorelle. Piangevo e gridavo: dovevate farmi morire”. Ana si è appena rivista allo specchio dopo l’incidente e non si riconosce. Non si vuole riconoscere in quella donna sfigurata con le mani bruciate, le braccia ridotte a un’atroce piaga, il volto deformato. È invece è lei. L’incendio le ha portato via tutto:la figlioletta che aspettava non è sopravissuta, il corpo da modella è irrimediabilmente sfigurato e la carriera ormai compromessa. La cucina è scoppiata e non le rimane nulla. Anche il rapporto con Xavier Sotomayor, il campione e il compagno di una vita, è lacerato. Ana non vuole la sua compassione, non vuole che qualcuno si senta costretto a starle vicino.

Viene a trovarla Fidel Castro. Perché Ana Fidelia Quirot è un simbolo di Cuba, della Cuba che corre, lotta e vince. In pista l’hanno soprannominata il generale per il suo stile impettito e fiero, per quella fame di vittoria che non si placa neanche quando gli ostacoli a superare sembrano proibitivi. Ma adesso si sente stanca, svuotata. Qualche settimana più tardi riceve la visita del suo allenatore, Leandro Civil. E finalmente riscopre di tenere ancora a se stessa. Alza e agita freneticamente le gambe. Quelle gambe che le sono valse vittorie in pista e sfilate in passerella ora sono il suo unico orgoglio. Non sono state deturpate dalle fiamme, non sono state toccate dal chirurgo. E da quelle gambe vuole ripartire. Inizia con la fisioterapia, poi un leggero lavoro cardiovascolare. Ha fame di riprendersi la sua vita, non accetta di sopravvivere, vuole tornare a essere la migliore. Smentisce i medici e torna in pista per il primo allenamento dopo l’incidente a pochi mesi dal rogo. Ovviamente di sera, perché la luce del giorno Ana non può proprio permettersela. Pochi giri, una decina di minuti di corsa a ritmo blando e la pelle che sembra bruciare. L’allenatore scuote la testa convinto che sia ora di chiudere il sipario. Ana invece sorride e grida al mondo: “Tornerò più forte di prima”. Tutti ci sperano, pochi ci credono. Ma con lei non si può seguire il buonsenso. La sua sete di rivincita zittisce ogni previsione. I medici si ricredono, l’allenatore smette di fare il tecnico e diventa tifoso. Perché a una come lei non puoi dare suggerimenti, nella sua corsa c’è l’anima, c’è lo spirito della leonessa ferita.

 

Arriva ai mondiali di Goteborg del ’95 e tutte le attenzioni sono per lei. Lei quelle attenzioni non le sopporta, non vuole passare per il caso umano di turno. Ora è tornata un’atleta e come un’atleta vuole essere trattata. In quegli 800 metri scarica rabbia e dolore soffocati in mesi di calvario. Vince. Tute le altre restano dietro, Cuba la riaccoglie come un’eroina. Castro la convoca, i due si guardano poi Ana trova la spalla del generale e piange. I due si sentono vicini, soli in mezzo alla folla, accomunati da destino di chi vuole reagire anche quando tutto sembra affondare.

L’ultimo sussulto lo regala ad Atlanta. La sua gara finisce con la medaglia d’argento, un gradino più in alto rispetto a Barcellona, un gradino più in alto dopo l’incidente. La vittoria le sfugge, la gioia non la porta via nessuno. Ha fatto meglio, è tornata più forte di prima. Come ogni valoroso generale che non si ritira senza aver portato a termine la propria missione. Ora si dedica alla nuova famiglia: ai due figlioletti nati dopo il rogo, la sua vera rivincita con il destino.

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