[oblo_image id=”2″]Il cinema Boldini di Ferrara ospita, in questi giorni, la rassegna “Travelling Africa”, un’iniziativa per diffondere nelle città italiane il cinema africano. Grazie alla collaborazione delle associazioni di volontariato e cooperazione sociale IBO Italia e COE (Centro Orientamento Educativo), lo scorso mercoledì è stato proiettato il film Munyurangabo del regista coreano-americano Lee Isaac Chung. Già presentato, in aprile, alla 18ª edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, svoltosi a Milano, questo lavoro ha fatto il giro delle manifestazioni cinematografiche mondiali, da Cannes a Toronto, riscuotendo un notevole successo.
La pellicola nasce come progetto di stage, dedicato ai giovani profughi del post genocidio rwandese, si è trasformato, poi, in un vero e proprio lungometraggio, con una sua anima forte e vibrante.

Il film è interamente girato in 16 mm, coinvolgendo attori non professionisti, che recitano nella loro lingua, il kinyarwanda. Una lingua comune che tuttavia non unisce le etnie dei due protagonisti, Hutu e Tutsi.
La pellicola racconta di due amici, Sangwa e Ngabo, che intraprendono un viaggio verso le campagne, per raggiungere i rispettivi villaggi. Questa tematica del viaggio, spesso presente nel cinema africano, anche se di solito con il percorso invertito (dalla campagna alla città), assume toni ambigui già dalle prime battute. Anzitutto il loro intento (vendicare il padre di Ngabo, ucciso durante il genocidio) resta oscuro allo spettatore per buona parte del film, lasciando trapelare un vago e opaco presentimento, per il trasporto di quel machete nello zaino. Il tutto sottolineato da insistenti inquadrature di schiena, che se, da un lato, vogliono quasi suggerire la volontà del regista di non intromettersi nella storia, dall’altro, ci nascondono l’intimità dei loro volti, disegnando invece la “forma” di una relazione (ovvero la posizione dei corpi nello spazio e il loro movimento).

Questa forma è ovviamente cangiante, nel corso del film, proprio a segnalare la crisi e i pesanti dilemmi che si insinuano tra i due amici. Infatti se, in un primo momento, li vediamo camminare insieme e guardare sicuri in avanti, come se la vicinanza dell’altro potesse infondere sicurezza, successivamente, dopo il litigio, le loro posizioni cominciano a separarsi e il loro incedere vacilla inevitabilmente. Ngabo resta così da solo e il suo guardarsi spesso intorno è la forma ormai mutata di quel cammino, che ora ci mostra i profili sfuggenti del ragazzo e non più due nuche che si accarezzano. È la rappresentazione della solitudine appena insediatasi, che spinge i suoi gesti verso un inquieto voltare la testa, lasciandosi alle spalle quel sereno sguardo rivolto in avanti.

[oblo_image id=”1″]La parabola che incrina l’amicizia, introducendo i tristi e pesanti temi del genocidio (i famosi 100 giorni del 1994), viene rappresentata, inoltre, secondo un schema temporale, oltre che spaziale.
Nella prima parte del film, infatti, il legame tra i dei due ragazzi sembra sottolineato da un montaggio ritmato e rimbalzante. La mancanza di linearità visiva (ottenuta dall’uso di ellissi temporali) si tramuta, per contrasto, in un senso di libertà di sentimenti e pensieri, come fosse l’emblema della loro unione, il desiderio di stabilire un legame sincero e spontaneo. Successivamente invece le inquadrature rallentano, i piani-sequenza indugiano verso la riflessione, in cui si insinuano dubbi e inevitabili contraddizioni. La forza del rapporto amicale si indebolisce sotto lo smarrimento dei disordini sociali e delle rivalità tribali non ancora risolti.

Emblematica, a tale proposito, è la scena in cui Sangwa riceve il rimprovero di suo padre, per aver portato in casa un tutsi. Il ragazzo risponde confuso che ha bisogno di pensarci. È ancora l’azione che si allunga nel tempo, mettendo in scena un meccanismo di cambiamento interpersonale ma anche di crescita individuale. I due giovani sono proiettati in maniera traumatica verso una dimensione adulta, configurando una sorta di rito di passaggio improvvisato e disorganizzato. Il rallentamento è quindi lecito, per dare tempo alle novità di essere elaborate e accettate.

Questa contrapposizione temporale (tra la velocità iniziale e la lentezza finale) è ribadita, inoltre, nella danza a cui assistono i ragazzi. Il ritmo incalzante si dilata per dar luogo a movimenti quasi al rallentatore, risolvendosi poi in una ripresa della dinamica iniziale.
Che risoluzione ha invece il legame tra i due amici? È spezzato in maniera definitiva?

La risposta di Lee Isaac Chung non può che guardare alla speranza, anzitutto tramutando il proposito di vendetta in uno di cooperazione (Ngabo decide infatti di aiutare l’omicida morente del padre, anziché vendicarsi) e accennando, nel finale, a un’onirica riconciliazione. Si vede infatti Ngabo inseguire il ricordo della vita cittadina, con i suoi ritmi incalzanti, e disegnare, poi, un’immagine in cui l’amico è di nuovo al suo fianco. Anche se ora hanno una divergenza di sguardi (infatti appaiono l’uno di spalle all’altro) il regista sembra disegnare ancora una possibilità di incontro, che passando attraverso un’amicizia possa tramutarsi in riconciliazione tra popoli.

– Il prossimo appuntamento alla sala Boldini, sempre con Travelling AfricaDopofestival d’Africa, Asia, Asia e America Latina, è mercoledì 22 ottobre, ORE 21.00, con una serata dedicata ai cortometraggi (ingresso libero).

Munyurangabo sarà invece presso il Kinemax di Gorizia, martedì 18 novembre 2008 ore 20.30.

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