[oblo_image id=”1″]L’esordio alla regia cinematografica di Martin McDonagh produce un’opera di grande interesse. Il suo In Bruges – la coscienza dell’assassino mostra già un’ottima padronanza del linguaggio audiovisivo, avviandolo con successo a una nuova carriera creativa.
Il tema del film si sviluppa intorno al paradosso di un’etica del killer. La dissonanza tra efferatezza omicida e fedeltà a un codice deontologico produce un irresistibile effetto grottesco. Per certi versi sembra ricordarci Pulp fiction di Quentin Tarantino, sia per la marcata parodia della crudeltà, sia per l’umanità che emerge nell’indole spietata degli assassini.
La trama di In Bruges ruota su un incidente già avvenuto, mostrato poi in flashback, consistente nell’uccisione involontaria di un bambino. Questo episodio innesca due meccanismi che mettono in crisi lo spavaldo mondo degli assassini. Il primo è il silenzioso brusio della coscienza, che genera nell’assassino un tale senso di colpa da fargli sfiorare il suicidio. L’altro attiva invece una questione d’onore, che spinge il boss londinese a essere prima mandante poi esecutore egli stesso di un omicidio punitivo, resosi necessario per compensare l’infanticidio.
[oblo_image id=”4″]È proprio su questo sdoppiamento tra piano distruttivo, relativo all’attività criminale, e quello auto-distruttivo, in nome di un codice etico, che il regista vuole insistere. Ovvero costruire un ironico gioco conflittuale tra i due volti del crimine, che infine implode in se stesso, rinviando beffardamente al “regolamento di conti” di stampo mafioso. Si configura così quel circolo vizioso che ribadisce soltanto la sostanziale irrazionalità e inconcludenza di un sistema costruito sulla violenza.
McDonagh non rimane sulla via del noir e del thriller, al contrario intraprende quella della commedia farsesca, che si contamina con gli altri due generi. L’assurdo soffermarsi su banali dettagli oppure su questioni linguistiche (vedi il dialogo col killer russo a proposito del significato di “alcova”) mentre si sta parlando di uno spargimento di sangue non può non risultare comico.
Ad un livello di analisi più approfondito, si intuisce quasi che il mondo dei killer, con la sua logica di pensiero e d’azione, venga messo a confronto con quella di altri universi culturali, come a voler condurre un’analisi sull’alterità, proponendo incontri che mettono a nudo i personaggi e ne rivelino differenze e somiglianze. Tutto questo avviene con un susseguirsi di simulazioni ed equivoci, che inducono i protagonisti prima a nascondersi poi a scoprirsi, riscoprendosi stranamente simili.
Nella scena del primo appuntamento di Ray con Chloë, una giovane attrice del luogo, entrambi rivelano ironicamente la propria inconfessabile identità, ma si scopre soltanto dopo che anche la ragazza non stava mentendo, perché è realmente una spacciatrice. Ancora, l’incontro con il nano passa per l’ambiguità di un saluto non ricambiato, rivelando poi che una dose di chetamina gli inibiva la volontà.
[oblo_image id=”3″]Un ulteriore ruolo semantico lo svolge poi lo stesso contesto ambientale: un borgo medievale a nord del Belgio. Il paesaggio urbano che conserva l’aspetto quasi intatto di uno scenario storico contribuisce a ribadire il senso della crisi individuale (dovuta alla coscienza), perché recide ogni legame sociale e culturale con l’ambiente familiare. L’incanto della cittadina, la sua perfetta conservazione che la pone ai confini di una configurazione anonima (quasi un non-luogo), non fanno altro che segnalare la sua ambiguità, oscillante tra l’aspetto noioso e monotono, come appare agli occhi di Ray, e quello affascinante ed esotico, apprezzato da Ken. Mentre quest’ultimo si interessa alla città belga con curiosità turistica, per il primo, il killer tormentato dal suo errore, essere costretto a rimanere in un paesaggio con cui non ha relazioni e vincoli è una sofferenza, in quanto risulta incapace di superare i propri confini mentali. Ad ogni modo per entrambi la relazione con il paesaggio è banale e superficiale, in quanto li lascia confinati nel proprio ruolo di killer, fino alla fine, quando trasformano Bruges nella tragica quinta di una scena da trhriller.
Alla decontestualizzazione spaziale dell’individuo si unisce poi quella temporale. Infatti quando Ray confessa di disinteressarsi alla storia, “che racconta solo cose già successe”, è per confermare il proprio turbamento. Il peso che gli deriva dal proprio passato, da quella memoria minacciosa, lo disorientano ulteriormente, spingendolo a rivalutare il valore stesso della vita. Ecco perché cerca in tutti i modi di proteggere Marie, che è incinta. Non per un codice deontologico, come fa Harry, ma perché anche un assassino cede e vacilla di fronte al miracolo della nascita e all’innocenza dell’infanzia.