Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. Quindi io precauzionalmente mi definirei un cantautore”. Parole (senza musica) di Fabrizio de André, che da proverbiale schivo ha sempre cercato di evitare i confronti. Anche se c’era chi, come Fernanda Pivano, lo considerava come uno dei più importanti poeti italiani del Novecento.

[oblo_image id=”1″]Sono passati 10 anni dalla sua morte, ma l’opera di De André, anche se molti non lo sanno, è sbarcata nelle università e nelle scuole già da qualche tempo. E se a Peschiera Borromeo c’è una scuola che porta il suo nome, l’Università di Siena ospita dal dicembre 2004 un Centro Studi Fabrizio De André. “Una struttura che si occupa di custodire e catalogare tutto il materiale che la Fondazione De André ha raccolto negli anni e ha voluto mettere a disposizione di tutti – dice Stefano Moscadelli, curatore dell’archivio del Centro Studi – Materiale che in questi anni è stato studiato, catalogato, digitalizzato, e che nei mesi prossimi sarà messo in rete, almeno per la parte non soggetta a diritto d’autore. Oltre quattrocento libri e dieci contenitori da cui sono usciti appunti, lettere, foto che rappresentano buona parte del lavoro di De Andrè degli ultimi dieci anni, riferito agli album Le Nuvole e Anime Salve, e molti documenti di tipo familiare sul giovane Fabrizio, come una letterina a Babbo Natale di fine anni ’40. E tutta la sua corrispondenza”.

Per capire quanto ci fosse voglia di studiare il lavoro di De André, basta vedere tutte le iniziative messe in piedi dal Centro in questi anni. “Abbiamo organizzato una serie di convegni per riflettere sulla realtà e la letteratura a partire dall’opera di Fabrizio – continua Moscadelli il primo nel 2004, per l’inaugurazione del Centro, sulla trasposizione in musica dell’Antologia di Spoon River di Masters in Non al denaro non all’amore né al cielo, un secondo l’anno successivo sulle canzoni che raccontano la guerra a partire da La Guerra di Piero e dalla Ballata dell’Eroe. Nel 2007 poi abbiamo osato, affrontando il rapporto tra canzone d’autore e poesia con Franco Battiato, Samuele Bersani, Teresa De Sio, Enrico Ruggeri (gli atti del convegno sono stati raccolti in un libro, Il suono e l’inchiostro, uscito in questi giorni per Chiare Lettere, ndr)”.

Passo dopo passo, il Centro ha cominciato a diventare un punto di riferimento per tutti i lavori intorno alla figura di De André. “Tesi di laurea, di dottorato, ma non solo. Il nostro statuto ci permette di essere autonomi dall’Università, e prevede la presenza nel gruppo dirigente di un rappresentante della Fondazione De André – prosegue Moscadelli Per questo collaboriamo con le varie iniziative della Fondazione, ad eccezione di quelle legate agli eventi di spettacolo. Teresa Marchesi, la giornalista di RaiTre che ha realizzato recentemente il documentario Effedia, è venuta a documentarsi presso la nostra struttura per completare il suo lavoro. E poi abbiamo, per esempio, una collaborazione con il teatro De André di Casalgrande, in provincia di Reggio Emilia, che spesso propone eventi dedicati a Fabrizio”.

Fondazione De André significa anche un rapporto diretto e importante con Dori Ghezzi, compagna di De André. “Dori Ghezzi ha fatto un grandissimo lavoro per evitare che la memoria di Fabrizio finisse nelle mani degli speculatori di immagine – dice Moscadelli Ha stimolato una riflessione di tipo serio su di lui, e il fatto che abbia voluto affidare le carte a un contesto universitario significa che ha voluto mettere in mano il materiale a chi lo poteva valorizzarlo, legarlo alla didattica”.

Resta solo una domanda: perché proprio De André? “Forse perché lo ammiriamo per il suo distacco, per la sua capacità di leggere la realtà che attraversava, e lo attraversava, come pochi altri – conclude Moscadelli – Pochi concerti, dischi rari ma capolavori. E musicalmente, per quanto lui fosse il paroliere, era un passo avanti rispetto ai colleghi, dal momento che si è messo più in discussione. Vedendo le carte colpisce moltissimo il lavoro di cura meticolosa di ogni parola, meditata e strameditata. È riuscito a parlare in un italiano comprensibile a tutti, evitando ostici ermetismi, ma utilizzando sempre al tempo stesso un linguaggio ricercato. Una qualità che si unisce alla perfezione dell’interpretazione, alla chiarezza della parola anche dal vivo, che faceva parte del suo fascino nel sentirlo cantare. Per questo De André rappresenta forse un’occasione unica di studiare la vicinanza tra poesia e musica d’autore, che ha come particolarità quella di avere tre teste: testo, canzone e interpretazione. Non c’è solo il testo, non è necessario che le parole siano perfette scritte su carta. È una forma d’arte particolare e nuova da studiare, ma che nei prossimi anni potrebbe avere sviluppi interessanti. La musica popolare può diventare una fonte per interpretare un’epoca, che non si può più trascurare. È una strada che dobbiamo percorrere”. Magari, con la mente aperta. E con i sensi divisi, tra il suono e l’inchiostro.

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