[oblo_image id=”1″]Il nuovo film del francese Abdellatif Kechiche La Graine et le mulet (Cous Cous), dopo il successo di critica e pubblico alla 64ª Mostra del Cinema di Venezia, esce finalmente nelle sale per regalare al pubblico uno spettacolo di raro coinvolgimento. La netta sensazione realistica, anzi neo-realistica, scuote lo spettatore attraverso un impatto conturbante, che non passa per quel “pedinamento” zavattiniano, che prediligeva (almeno in teoria) interminabili piano-sequenza, ma affondando lo sguardo e l’empatia dello spettatore in un montaggio rapsodico e in movimenti destabilizzanti della macchina da presa. La camera, infatti, viene spesso coinvolta in arditi movimenti, quasi sull’orlo dell’improvvisazione virtuosistica, nella ricerca scrupolosa dei volti dei personaggi. Eppure si intuisce una costruzione della scena meticolosa e ben studiata, che parte da un puntuale lavoro sugli attori non professionisti fino a trasformare i dialoghi concitati e nervosi della quotidianità in una sensazione di partecipazione increspata, non lineare.

L’emozione dello spettatore non viene infatti stimolata verso un semplice coinvolgimento e non presenta neanche una definizione netta. Il regista lo trascina nei fastidiosi e spesso monotoni problemi del quotidiano, che toccano l’apice nella scena di isterismo di Julia, lasciando al pubblico lo spiraglio del distacco, che aziona la riflessione e mette in moto un’immedesimazione di distanza esatta, senza emotivi annullamenti della coscienza. Lo “schiaffo” delle panoramiche innesca un leggero risveglio nello spettatore, rafforzandone, da un lato, la percezione realistica, dall’altro, il senso della rappresentazione.

[oblo_image id=”2″]Il tema ricorrente è quello della contaminazione culturale, iniettato nelle scene come una sperimentazione terapeutica ormai matura, capace ancora di cedere a piccole ricadute razziste, ma ormai tanto avanzata da non mostrare più impressioni forti di reale disprezzo e tale da presentare un quadro di proficuo e ironico scambio di valori. Emblematica, a tale proposito, è la scena del pranzo a casa di Souad quando si parla della lingua araba e si scherza sull’incerta pronuncia di Mario. Il legame culturale è ormai stretto, ben oltre il matrimonio, e le lingue, le abitudini e le reciproche influenze si sostengono e si cristallizzano in un nuovo equilibrio, consegnando alle nuove generazioni un’eredità di multiformi risorse. Sì, anche questo c’è nel film, l’attenzione al passaggio generazionale, che emerge con particolare chiarezza nelle parole che il vecchio musicista rivolge a Rym, mentre si aggiusta il cravattino. La sua lettura dell’impresa di Slimane è perfetta e impeccabile: il sacrificio (forse l’ultimo, dato il tragico finale) di una generazione, fatta di lotte sociali e culturali, che lascia soddisfatta ai propri figli e nipoti un ambiente rinnovato. Un ultimo sforzo, quella nave sull’acqua, che è quasi una dedica poetica, oltre che sostanziale impresa economica, da donare ai figli. Un vecchio rottame galleggiante che sa ancorarsi al nuovo in un efficace gesto di rinnovamento; è il simbolo multiforme di un’alleanza proficua tra passato e presente, tra anziani e giovani, tra lo spirito del sacrificio e la capacità di osare (per passione).

Anche la musica, in rispetto del senso realistico, è quasi sempre interna, ovvero diegetica, fino ad approdare a una performance dal vivo che pare non avere fine, sempre presente in ogni ritorno alle immagini della cena, pronta da espandersi nei movimenti fuori la nave e capace di echeggiare per le vie della città, accompagnando Slimane nel suo disperato tentativo di salvare la sua serata. È la stessa musica che accompagnerà la vertiginosa e sensuale danza del ventre di Rym, sostenendola nel suo estremo tentativo di prolungare quell’attesa del cuos cous e riportando il nervosismo degli ospiti a una gioviale esaltazione. Le note si insinuano nella trama accompagnando la suspense crescente, da cui lo spettatore cerca sollievo per il lungo protrarsi, quasi desiderando quel movimento fisico, poi incarnato dalla danza, come sfogo della asfissiante (e geniale) sospensione.

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