[oblo_image id=”1″] Solo chi era presente potrebbe trovare le parole per descrivere, seppur in maniera sbiadita e approssimativa, quanto è successo domenica 13 settembre in più di duecentotrenta città italiane. “Se non ora, quando?” è stato lo slogan della manifestazione che ha raccolto adesioni quasi esclusivamente tramite il passaparola in rete. Si è scesi in piazza per ricordare l’importanza della dignità della donna in quasiasi paese che voglia definirsi civile, per mostrare il proprio disgusto nei confronti di un modello femminile che non ci fa onore e che ormai fa parte del nostro immaginario comune, per solidarizzare con tutte le Ruby e le Minetti fagocitate da un disgustoso meccanismo maschilista e corrotto. Soprattutto però, si è scesi in piazza, per urlare che una nazione che vive un periodo di malessere sociale ed economico non può essere governata da figuri moralmente ambigui che la rendono continuamente vittima di scandali da commedie di Natale. Domenica scorsa è stato come risvegliarsi da un brutto incubo e rendersi conto che si stava solo sognando. Il disgusto provato nei nei mesi precedenti, l’amarezza, la tristezza quasi rassegnata si sono dissolte in un istante alla vista del mare di persone presenti alla manifestazione. Solo a Torino, che conta un milione di abitanti, c’erano centomila persone. Ragazzi, anziani, bambini, famiglie intere, tante donne e tantissimi uomini. Non mancava nessuna fascia d’età, nessun colore, nessun orientamento, si sfilava con allegria come in una grande festa, senza nessuna bandiera politica, si passeggiava tutti insieme, in un immenso cordone di umanità. Gli ombrelli aperti servivano simbolicamente a coprirsi dal fango degli scandali e i chilometri di gomitoli di lana srotolati nella folla creavano la rete della solidarietà verso tutte le donne d’Italia e del mondo. Quel giorno si respirava aria pulita, le persone forse si sentivano migliori di come vengono generalmente rappresentate, le donne erano orgogliose di essere donne, gli uomini al loro fianco solidali e fieri. Certamente -le cifre parlano chiaro- non si può parlare di pochi facinorosi, di moralisti sinistroidi, di bande di studentelli dalla protesta facile. Chi ha voluto interpretare in questo modo la manifestazione di domenica, certamente non era presente in piazza. Non è moralismo, né presunto senso di superiorità intellettuale, non è comunismo, né moda. Ci vuole poco a sentirsi migliori di quanto ci viene presentato ogni giorno come il prototipo dell’uomo e della donna italiana di successo e poere. E sarebbe profondamente giusto e democratico che chi tutti i giorni lavora onestamente, studia e si impegna per migliorarsi non venga sorpassato da giovanissime aspiranti starlette il cui curriculum è talora un book fotografico, talora un’operazione ben riuscita di mastoplastica. La deputata di Fli Giulia Bongiorno ha spiegato con queste felicissime parole le ragioni dell’indignazione popolare: “Non sono qui per criticare i festini hard, ma per farlo quando diventano sistema di selezione della classe dirigente”. Le persone in piazza domenica scorsa non sono meglio di altre né hanno la presunzione di crederlo. Nessuno di loro voleva puntare il dito, dare lezioni di etica o di comportamento sessuale perché la libertà investe ogni ambito della vita privata e ognuno ha piena facoltà di autodeterminarsi e di scegliere per sé. Ciò che fa la differenza, però, tra coloro che si indignano scendendo in piazza e coloro che chiudono gli occhi pensando che in fondo “non c’è nulla di male”, sta nel diverso grado di rassegnazione a cui siamo giunti: chi spera ancora che qualcosa possa cambiare in meglio esiste e domenica abbiamo avuto la dimostrazione di non essere in pochi. La speranza è che questo vento fresco continui ad avvolgerci e che, d’ora in poi, i tristi episodi di cui siamo stati spettatori diventino un ricordo lontano di una commediola tragicomica che non può essere la realtà e che solo una fantasia estremaente fervida potrebbe concepire. Una commediola in cui, certamente, nessuno di noi vorrebbe vivere.

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