[oblo_image id=”1″]O il calcio è un’oasi felice, pulita e sorridente. O nasconde un lato così marcio che per provare a smacchiarsi ha bisogno di uno che ha ammesso di essersi venduto partite, di aver fatto uso reiterato di doping, di essere entrato in giri loschi, di essere arrivato ad un tale livello di corruzione da doversi vergognare per aver rifiutato di far visita al figlio morente. Cosa c’è dietro alle confessioni di Carlo Petrini? Cosa nascondono le accuse di un uomo che a vent’anni pensava che il calcio aprisse le porte del paradiso e si è trovato a remare all’inferno? Le sue denunce sono stilettate, rasoiate che squarciano i silenzi del mondo del pallone. Svelano come il calcio sia una sorta di iceberg dove un isolotto che affiora in superficie con le sembianze di un isolotto fertile nasconde un enorme blocco sommerso, putrido, fangoso. Un teatro talmente falso da riuscire ingannare persino ii tifosi che esultano o si disperano senza sapere di assistere ad uno spettacolo finto.

Petrini dice che le partite sono truccate. Lui di partite così ne ha viste e ne ha giocate. Aggiunge che i calciatori venivano (vengono?) dopati sistematicamente. Allora non ne comprendeva a pieno le conseguenze, pur accorgendosi che c’era qualcosa di strano. Se nell’intervallo ti viene somministrato qualcosa e nel secondo tempo ti senti come Hulk con tanto di bava verde ad uscirti dalla bocca, farti delle domande è il minimo. Petrini dice che tutti sapevano, ma che nessuno parlava allora. E che nessuno vuole parlarne neanche adesso. Quando sono stati pubblicati i suoi libri da un editore coraggioso al limite del temerario, la maggior parte dei calciatori non l’ha accusato di raccontare menzogne. Ma gli imputavano di aver detto cose che era meglio mantenere sottaciute. Omertà? Paura? Forse entrambi. Eppure, come dice Petrini, in tanti tra compagni e avversari di quegli anni sono morti. Nessuno per incidente. Coincidenze? Pure lui ha scoperto la malattia sotto forma di un grave glaucoma tanto aggressivo da appannargli la vista, con gli occhi che sembrano spegnersi come un candela. Lentamente e inesorabilmente.

Ma chi era Carlo Petrini? Era un buon attaccante, non un fuoriclasse. Chi è oggi Carlo Petrini? Un uomo di 62 anni che sfugge e rifugge ad ogni definizione. Non accetta l’etichetta di pentito, tuttavia è riduttivo considerarlo semplicemente un testimone. E’ un signore che dice quello che pensa e che pensa quello che dice. Ha alzato il velo di Maya, ha aperto un varco nel fango per ridare dignità ad uno sport e forse anche a se stesso. Disincantato, drammaticamente lucido, arrabbiato, deluso come possono esserlo gli amanti traditi. Perché il vero inganno del calcio è quello di farti sentire il padrone del mondo. Da ragazzino ti accorgi che sei bravo a tirare calci ad un pallone, sai gonfiare una rete e cominci ad essere orgoglioso. Basta che qualcun altro scopra il tuo talento e ti trovi proiettato in un mondo dei sogni. Donne? Quante ne vuoi. Soldi? Anche di più. Amici? C’è gente disposta a mettersi in fila per farti un favore. I giornali parlano di te, i tifosi ti acclamano, il telefono squilla ad ogni ora. Lo sai che finirà ma sul momento non ci pensi.

Poi a 60 anni riguardi tutto con un altro spirito. Ti accorgi che non eri padrone di niente, perché le tue gioie si basavano sulle menzogne. Ti ritrovi solo a chiederti cosa ti è rimasto: a farti divorare dai sensi di colpa per tutti i tifosi che hai ingannato spacciando per reali partite truccate, a tormentarti sulle conseguenze sul tuo fisico delle sostanze che hai preso con tanta leggerezza. Petrini non è un moralista, però ci tiene a spiegare ai ragazzi che il successo non è un bene supremo a cui tendere. E non sempre equivale alla felicità. Stando ad alcune inchieste, un ragazzo su tre sarebbe disposto a doparsi per sfondare. Petrini dice di aver scritto libri anche, se non soprattutto, per loro. Magari si è inventato. Magari, invece, se qualcuno lo ascoltasse, il pallone si scrollerebbe da tutto il fango che gli è stato gettato addosso.

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