[oblo_image id=”1″] Tommy Smith insegna ginnastica al Santa Monica College, una scuola scalcinata come tante. Ha un master in sociologia, è un ex olimpionico e primatista mondiale ma i suoi allievi non sono campioni e nemmeno lo diverranno. La maggior parte di loro è obesa, Tommy si lamenta: “Dalla porta passo prima io. Non per gerarchia, solo che in due insieme non ci passiamo, Se chiedo ad un ragazzo di fare una rampa di scale per raggiungere il mio ufficio, nell’attesa posso prendermi un caffè. Arriverà ansimando come se avesse scalato una montagna”. Ma Smith non è un professore come gli altri. È anche un’icona, il poster di una generazione come Che Guevara, Martin Luther King o il ragazzo di Tien Amen che sfida un carro armato. Era il 16 Ottobre del 1968 quando decise di trasformare una premiazione in una rivoluzione. Poche ore prima aveva vinto l’oro olimpico nei 200 metri eguagliando il record del mondo ma di festeggiare non aveva nessuna voglia. E allora si è presentato sul podio con il compagno John Carlos con il guanto nero del Black Power e al momento dell’inno americano ha abbassato la testa e alzato il pugno chiuso al cielo. Sarebbe potuto diventare il nuovo Jesse Owens ma non voleva. Tommy Smith non voleva fare la fine di tanti atleti neri che l’America sventola al mondo come esempi di integrazione quando vincono la medaglia d’oro mentre le discriminazioni razziali e le contraddizioni riemergono appena sulle Olimpiadi cala il sipario. E non importa se quel gesto gli è costato l’espulsione dai giochi e l’ostracismo della federazione americana che lo ha rinnegato. Smith sapeva a cosa andava incontro e ha imparato a superare gli insulti, le minacce di morte, i pacchi pieni di sterco di vacca quotidianamente recapitati alla sua famiglia. Molti anni dopo il suo amico e compagno di protesta John Carlos ha detto: “Eravamo come su un’isola deserta. Ma siamo sopravvissuti”. Forse su quell’isola deserta ci sono ancora, condannati a non essere mai interamente capiti, compresi, accettati.  A Tommy Smith interessa poco. Ha sempre fatto della coerenza un modo d’essere. Sapeva che i giochi di Città del Messico erano l’occasione per lanciare un segnale forte, l’unica possibilità per un uomo comune di lanciare il guanto di sfida agli Stati Uniti. E ha colto nel segno. Perché la foto con i due campioni col pugno chiuso ha scosso le coscienze, quel poster era ben appeso nelle camere del 90% dei ragazzini afro-americani di quegli anni. Ancora oggi Tommy Smith è un  ribelle, crede negli stessi valori di 40 anni fa, ma non insegue rivincite né è divorato dai rimpianti. Quando gli chiedono se ne fosse valsa la pena, risponde: “Quel gesto non è giusto o sbagliato. Quel gesto è mio. Se non lo avessi fatto, non sarei stato l’uomo che sono. E a me stesso ci tengo“. Perché la rivoluzione parte da dentro e non sempre ha bisogno delle luci della ribalta. Tommy è convinto che insegnare sia il miglior modo per educare i giovani a pensare con la propria testa. Uno studente vedendo la fotografia di Città del Messico gli ha chiesto chi fossero quei due con il pugno chiuso. “Torna a studiare, somaro” gli ha risposto. A quaranta anni di distanza, il lavoro da fare è ancora tanto.

(Tratto da Eroi per un giorno di Roberto D’Ingiullo, Edizioni Marco Valerio)

 

Ora la storia di Tommy Smith diventa un film, “Il saluto“, realizzato da Matt Norman, il  nipote di Peter Norman, l’atleta che conquistò l’argento in quell’indimenticabile gara. Alla sua presentazione, la pellicola ha ricevuto una lunga standing ovation. Forse perchè lo sport non propone più campioni disposti ad impegnarsi per un ideale: straordinari in campo, corrosi dall’indifferenza fuori. Anche a loro Tommy Smith ha molto da insegnare.