[oblo_image id=”1″]La più recente rassegna che ha avuto luogo negli spazi della Fondazione Prada si è conclusa agli inizi di giugno, non conoscendo purtroppo una di quelle proroghe che si ottengono in genere a furor di popolo, pur essendo spesso le esibizioni in oggetto valide in grado inferiore.

[oblo_image id=”2″]E’ questo che poi ci piace della Fondazione Prada, il coraggio di presentare artisti non propriamente comodi, la capacità di proporre un discorso culturale per nulla scontato, dove la storiografia istituzionale non ha ancora avuto modo di fondare facili assestamenti di giudizio. D’altronde, la Fondazione Prada prosegue in linea con i principi che animarono il già intraprendente progetto Prada Milanoarte, il cui intento era quello di presentare al pubblico le più profonde provocazioni mentali (Miuccia Prada, 1993). Pregio ulteriore sta nell’abile coniugazione di un’estetica viva ed un assetto museale rigoroso; ci hanno presentato una mostra accurata nell’allestimento, esclusiva per l’intervento personale dell’artista, rappresentativa di un’intera produzione. E’ insomma il terreno della critica più pura quello in cui si è scelto di muoversi, motivo per cui abbiamo raccolto la sfida e cercheremo ora di riflettere, a freddo, sul contributo che un’artista come Nathalie Djurberg può apporre ad una comunità come quella meneghina, molto facile ad infiammarsi per le nuove tendenze a patto che non siano propriamente nuovissime.

[oblo_image id=”3″]Non che il fenomeno della videoarte sia chissà quale novità. Eppure ancora fatica ad essere recepito su larga scala; vuoi per le difficoltà che pone al mercato dell’arte e che lo rendono un prodotto spinoso da gestire nel circuito del collezionismo privato, vuoi proprio perchè quell’era elettrotecnica profetizzata da McLuhan ancora non ha propriamente permeato la coscienza del pubblico. Persino Germano Celant, nel saggio in catalogo della mostra di cui era curatore, suggerisce un’idea del fenomeno non troppo condivisibile: il senso dello spazio fisico è stato annullato per divenire del tutto immaginario. L’arte visiva si sta muovendo verso una condizione immateriale in cui l’osservatore deve immergersi più mentalmente che fisicamente [tutte le traduzioni dall’inglese a cura della redattrice]. Quest’affermazione è davvero poco sostenibile davanti al raffronto oggettivo istituito tra pubblico e video: lo spettatore avverte nausea, claustrofobia, vicinanza tattile al soggetto, in sostanza tutto un repertorio di sensazioni fisiche (addirittura fisiologiche) che gli si pongono con prepotenza, con un potere esercitato in modo più esplicito rispetto alla tradizione. Laddove la prospettiva e la conseguente arte occidentale, la pittura così come la si è sempre contemplata a distanza su cavalletto e dietro cornice, distanziavano invece il fruitore, ponendolo volente o meno in una dimensione astratta: paradossalmente, l’oggetto classico con la sua estraneità produce un’alienazione di fondo delle condizioni reali.

[oblo_image id=”4″]Ancora ci tocca quindi dissentire da Celant, secondo cui l’alto tasso di soggettività (quasi narcisistica) della produzione di Nathalie Djurberg sarebbe una reazione alla freddezza dei nuovi media utilizzati… Quale freddezza? Il coinvolgimento è massimo e, forse, non lo si avverte perchè così diffuso e pervasivo. Vogliamo suggerire insomma una concordanza di fondo tra messaggio e mezzo, che si piacciono per affinità elettiva. Il video a bassa risoluzione istiga l’uomo tribale a riemergere, affermava Marshall McLuhan, si avvicina e ci avvicina ad un mondo tattile che non si può contemplare e si deve esperire forzatamente. Non a caso la televisione incanta ed annulla qualsiasi reazione critica: non è mancanza di realtà, è che proprio ci finiamo dentro. E Nathalie Djurberg tutto questo lo afferma con una categoricità quasi didascalica. Prova ne sia l’allestimento creato ad hoc per la rassegna milanese: grotte ed organi, casette e tuberi in cui entrare, spazi reali, tangibili, veri persino per l’accuratezza di realizzazione, segno prepotente dell’emersione del soggetto dal video.

[oblo_image id=”5″]Emersione: una parola che risuona molto, all’interno di questo contesto critico. E’ in una prospettiva psicanalitica che ci sembra di ritrovare alcuni dei migliori apporti da parte della Djurberg. Se Germano Celant vede nel pupazzo l’allegoria manifesta di un corpo che diventa lo strumento di qualcun altro, ci sembra piuttosto si tratti del ritorno di una dinamica infantile, in cui il bambino si rapporta per la prima volta all’oggetto transizionale: la marionetta rappresenta un’entità viva, reale, dotata di un’esistenza propria eppure legata alla nostra, un’area intermedia tra sé e non-sè. Non è tanto la perdita di possesso del proprio ego il tema dell’opera, piuttosto l’allargamento della propria identità al mondo esterno, in senso animistico. Tanto più gli atti di sesso e violenza dell’artista svedese ci colpiscono quanto più sappiamo sono delle messinscene: protetti dalla modalità giocosa, primitiva, lasciamo che i nostri reconditi impulsi emergano, appunto, più autentici che mai. La visione della Djurberg è estrema ed effettivamente toccante, offrendosi in uno stato di totale nudità, al di là di ogni idealizzazione. Il suo lavoro strappa via il velo dalla nozione di arte come un processo astratto, privo di corpo e concettuale, dandogli materia e carne. Gli elementi liberatori passano tramite erotismo ed arte, che nell’opera della Djurberg si legano assieme e si specchiano reciprocamente senza limiti.

[oblo_image id=”6″]E’ un favolistico che, ancora nella concezione freudiana, diventa Unheimlich ovvero perturbante. La Madre in It’s the Mother viene ingannata dai figli e costretta ad essere una figura di attaccamento in senso letterale. In Johnny l’erotismo femminile si tramuta in una forma di aggressività al principio maschile che ha cercato di goderne; non a caso, culminando in una una danza macabra, foriera di pratiche secolari nell’esorcizzare il demone tramite il pathos. Il voyeurismo è poi l’apice di questo assetto capovolto, in cui il rimosso viene volutamente rivissuto in uno spostamento di termini: guardando il video Turn into me all’interno della casetta, il luogo rassicurante dell’infanzia diventa carcere opprimente per l’adulto che si è creduto incautamente al di sopra di alcune paure ataviche, come quella che il proprio cadavere venga divorato e decomposto dalla fauna, mentre ora deve vedersele proposte davanti.

L’onirico non è solo incubo, ha semplicemente una simbolica la cui costruttività esula dagli schemi razionali. Per questo il lupo cattivo ed il ragazzino innocente possono condividere uno stesso torso umano, conciliando buonsenso ed ingordigia tramite l’amicizia. E’ solo frustrante che non si possa giungere ad un contatto diretto, una vera coniugazione degli opposti in un abbraccio fraterno.

D’altronde, non è compito di un’arte come questa contemplare l’equilibrio e l’armonia come propria sintesi risolutiva. Ringraziamo infatti Nathalie Djurberg per aver ricordato a Milano l’arte del dubbio come una propedeutica alla rivelazione di un noi più vero.

Nathalie Djurberg

Nata nel 1978 in Svezia.
Djurberg vive e lavora a Berlino e recentemente si è affermata come uno dei principali artisti della nuova generazione in Svezia. I suoi video sono caratterizzati da piccole figure animate realizzate in argilla, che lei utilizza per creare atmosfere surreali e spesso storie grottesche. L’assetto rudimentale ma ingegnoso di queste narrazioni è creato dala stessa artista. Reminiscenze sessuali, riferimenti al macabro, violenti piaceri di una crudeltà sottile ed una vada depravazione danno adito ad un ambiguo senso di ansia e disagio. [Miuccia Prada e Patrizio Bertelli]

La mostra Turn into Me si è tenuta presso la Fondazione Prada (Milano) dal 19 aprile al 1 giugno 2008. Curatore della mostra e del catalogo: Germano Celant.

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