Ci sono uomini che non trovano mai la pace. Neanche quando colgono tutte le occasioni che la vita mette a loro disposizione. Sfrontati eppure spaesati, geniali ma persi dietro a qualcosa che neanche loro sanno cos’è, tanto sono oggetti oscuri anche per loro stessi.

Luciano Bianciardi, scrittore e sceneggiatore grossetano, era così. La sua storia è quella di un ragazzo di provincia che negli anni del dopoguerra lascia la sua terra, la Maremma, perché comincia a stargli stretta, e decide di trasferirsi a Milano per colpa di quell’urgenza che spinge chi sa di volere di più. Una storia “sbagliata” che Massimo Coppola, realizzatore per Mtv di programmi come Brand New e AvereVentAnni, ha voluto immortalare in un documentario con le voci di chi Bianciardi l’ha conosciuto davvero. Un film passato in agosto dal Lido di Venezia, applaudito, e che ora esce in dvd (ISBN Edizioni con libretto allegato) come il grido che gli fa da titolo. “Bianciardi!”

Scrittore, ma anche sceneggiatore e intellettuale brillante, Bianciardi quella Milano degli anni Cinquanta e Sessanta l’ha vissuta da protagonista. Insieme alla donna per cui lasciò la famiglia a Grosseto, quella Maria Jatosti che fa da fil rouge del documentario, e a tanti altri come Enrico Vaime e il pittore Pietro Cavallini, che di Bianciardi condividevano l’origine provinciale.

Un particolare non da poco. Perché la storiella del topo di campagna e del topo di città non sarà vera del tutto, ma come tutte le favole ha il suo fondo di concretezza. Perché anche la grande città a un certo punto può diventare una gabbia, se non ti fa esprimere una parte di te stesso, quella rimasta legata alla semplicità della vita di provincia. Che Bianciardi va infatti poi a ricercare a Rapallo, rifugio prediletto degli ultimi anni di vita.

Sentirsi strappato, strattonato da due parti di sé così discordi può però lacerare. E accanto a un’estrema creatività (Bianciardi raggiungerà il successo con il romanzo “La vita agra”, e poi scriverà film per Tognazzi e Lizzani) piano piano si fa largo il germe dell’autodistruzione per via alcoolica che distrugge il fegato e la vita di Bianciardi, che muore appena quarantanovenne nel 1971.

Il lavoro di Coppola è in gran parte buono, ma forse ha un limite, che ha molto a che fare con la vicenda stessa di Bianciardi. Bravissimo nel gestire le interviste ai protagonisti, il regista sembra però difettare in due cose: il montaggio, che a volte sembra perdersi in capitoli troppo slegati tra loro (e per un film di poco più di un’ora questo è un grosso limite) e lo sguardo troppo “cittadino” per capire a fondo la provincialità di Bianciardi, solo intuita qua e là. E così il Luciano da Grosseto sembra ancora più alieno, come l’ex minatore maremmano colto all’inizio del documentario a cogliere radicchio nei campi intorno a dove lavorava più di cinquant’anni prima.

Forse aveva proprio ragione Bianciardi, parlando di quello che in fondo era il suo vero lavoro, quello di traduttore: la fatica di un uomo solo alle prese con un libro straniero, davanti ai tasti di una macchina, con una pila di fogli bianchi che faticosamente, uno dopo l’altro, si anneriscono. Non è un mestiere avventuroso; le sue gioie e i suoi dolori dall’esterno si vedono assai poco”. Agra è la vita di chi è destinato a non essere capito. Neanche da se stesso.

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