[oblo_image id=”9″]A vedere il film di Matteo Garrone Gomorra può venire in mente che si tratta di una finzione cinematografica, un espediente per denunciare la difficile situazione di una città. E invece presto ci si accorge che questa è la realtà, lontano da noi solo qualche km di autostrada. Non l’inferno, ma Napoli.

La pellicola, che racconta in 2 ore il best seller di Roberto Saviano, riesce magistralmente a dare una idea precisa sulla assurda e paradossale situazione che coinvolge questa città ma che riguarda assolutamente tutto lo stivale. Con la differenza che a Napoli si muore. E si muore pure a 20 se decidi che la guerra la vuoi fare da solo, o se sei una mamma colpevole di avere un figlio dodicenne “scissionista”, o se per campare per forza ti devi assoggettare ai poteri della mafia cinese, o si muore semplicemente per il fatto di vivere in una città costruita su terreni radioattivi. Un quadro su Scampia in particolare, a dir poco infernale, quasi inverosimile dove la gente vive in quartieri surreali fatti da palazzi ferrati di tanti piani, dove l’innocenza ti viene rubata da bambino in cambio di una pistola, dove la gente diventa amica o nemica all’improvviso sui comandi di uno stato camorra che tutto vede e tutto comanda. Una realtà però imprenscindibile che ti cade addosso senza neanche accorgertene e che non lascia possibilità di scelta a nessuno. Perchè la miseria purtroppo non lascia possibilità di scelta, per cui diventa impossibile sottrarsi a dover lavorare in nero 12 ore al giorno in una sartoria sub appaltata dalle grandi firme per pochi soldi, pure se possiedi doti superiori a quelle dei grandi stilisti (come Pasquale). [oblo_image id=”7″]La miseria che ti costringe a vendere i tuoi terreni alla camorra per trasformarli in una occulta discarica di rifiuti velenosi, pur sapendo che quelle pesche ti uccideranno. La miseria che ti fa diventare criminale a 12 anni costringendoti a uccidere pure i tuoi amici perchè hanno voltato le spalle al clan (il piccolo Totò). La miseria che ti fa sognare di poter diventare un mafioso dignitoso, sullo stile dei personaggi di De Palma, credendo che un bazooka ti possa trasformare nel re del quartiere (i ventenni Ciro e Marco). E invece inevitabilmente incontri solo la morte. Perchè tutto è e rimane solo ed esclusivamente della Gomorra, l’unica che veramente guadagna, e che decide chi deve campare e chi deve morire, chi è l’amico, chi il nemico.

Ma la riconoscenza maggiore a Garrone/ Saviano sta nel fatto di aver smitizzato l’idea di una mafia-stato, da reminiscenze hollywoodiane, che protegge e aiuta, perchè qui nessuno se la spassa. Neanche i piccoli padroni panciuti che continuano a vivere in case fatiscenti e non in villoni visti nella saga di Coppola, che incontrano la morte in squallidi saloni di bellezza, che vengono esclusi socialmente non ostante apparentemente rappresentino un aiuto per la povera gente (come il porta-soldi Don Ciro) che devono girare sempre con la pistola in mano pronti a uccidere per non essere uccisi.

Ed è questo il lato migliore del doveroso film Gomorra : qui nessuno tiferà per i mafiosi.

Tra chiaroscuri e dettagli audiovisivi

Di certo sono le tematiche trattate, ispirate dal testo di Roberto Saviano, ad aver determinato il forte gradimento di pubblico e critica, sentita moltissimo anche all’estero, ma la pellicola di Garrone possiede anche uno specifico valore estetico. Nel mettere in scena quegli episodi scottanti del mondo camorristico, il regista si impadronisce di essi attraverso un’opera di trasposizione cinematografica raffinata e consapevole.
[oblo_image id=”1″] Si addentra insomma nella ricerca di una configurazione audiovisiva precisa, autoriale, che restituisce alle storie narrate un’espressione di grande impatto emotivo ma insieme di notevole suggestione formale.

In primo luogo, colpisce il gioco delle inquadrature, che oscillano facilmente dai primissimi piani ai campi lunghi, quasi a voler descrivere la forte e repentina escursione psicologica, ormai radicata nello spirito e nella personalità dei vari soggetti protagonisti. Sembra non esserci spazio per passaggi delicati nell’individuo che cresce in questi ambienti, l’istinto di sopravvivenza è allertato facilmente e le emozioni slittano agli estremi come un elastico ben teso.
I loro volti, inseguiti dalla camera con primissimi piani, scivolano volentieri ai confini del dettaglio. La scelta di focali lunghe proietta lo sguardo nelle pieghe delle espressioni facciali, cercando quelle increspature che reggono la loro rigidità indurita.
La camera sembra talvolta faticare nella regolazione della messa a fuoco, esprimendo la difficoltà di una ricerca interiore. Oppure lascia volutamente sfocati gli interlocutori in secondo piano, come a sottolineare, in questo arduo raggiungimento della profondità di campo, una miopia culturale, una sostanziale avversione verso i rapporti egualitari. Non si tratta quindi di un fallimento dello sguardo ma della configurazione di una velatura cognitiva, in cui la “nitidezza” dell’essere è una concessione gerarchica e non un diritto inviolabile.

Garrone è abile nel cercare l’individualità nel groviglio serpentino delle connessioni sociali. Anzi meglio, riesce a segnalare il movimento del singolo, nel suo atto di dimenarsi tra le ingombranti relazioni che lo coinvolgono. A tale proposito, particolarmente riuscita è la storia di Pasquale, il sarto, che tenta di dare rilievo alla propria identità accettando di impartire lezioni ad un gruppo di lavoratori cinesi. [oblo_image id=”5″] La sua arte nel taglio viene finalmente riconosciuta, è chiamato “maestro” e la sua professionalità viene messa in luce. Emblematica è la scena in cui viene accolto nella sartoria tra applausi e ovazioni. I suoi gesti vengono proiettati su uno schermo e questo raddoppiamento e insieme ingrandimento visivi esaltano l’ambiguità (è dovuto arrivare nascosto nel cofano dell’auto) del suo momento di gloria.
Perché, appunto, in Gomorra non c’è spazio per iniziative personali, chiunque ci provi è destinato al declino o all’abbandono. Infatti Pasquale diventa camionista, rinunciando al suo talento, Roberto, l’aiutante di Franco, decide che lavorare nel riciclaggio illecito non fa per lui, e i due ragazzi ribelli finiscono assassinati. Tutto sembra essere uno spinto chiaroscuro, in cui non ci sono toni intermedi ove rifugiarsi. La fotografia del film lo conferma, mostrando spesso immagini fortemente contrastate, che accolgono insieme la luce esterna e il buio interno delle abitazioni o dei prefabbricati.

Tutti gli scenari, inoltre, sembrano essere caratterizzati da una debolezza cromatica, da cui emergono alcuni elementi di colore intenso, i quali giocano un ruolo decisivo a livello semantico. Già all’inizio del film, infatti, prevale il blu delle lampade abbronzanti, che presto verrà macchiato con il rosso del sangue sparso dai killer. È il preludio simbolico a tutte le successive vicende: l’ombra della violenza purpurea che si allungherà inesorabilmente su tutti i tentativi di stabilire ogni diversità tonale, tantomeno se si tratta di un blu rilassante.
Con il colore si dipinge poi il paesaggio, dal giallo della cava al grigio dei quartieri fatiscenti, tutti inquadrati volentieri da campi lunghi, di cui gli individui appaiono i minuscoli abitanti. Di certo c’è, nell’intenzione del regista, il desiderio di riflettere sul rapporto quasi conflittuale tra uomo e ambiente. Un rapporto che si realizza attraverso un’ambiguità visiva (la bellezza della fotografia che descrive atti degradanti o paesaggi deturpati), che vuole sottolineare la problematicità di tale rapporto e non il senso unico della volontà distruttiva.

[oblo_image id=”3″] Infine, non si può non menzionare l’interessante uso dei suoni, che spesso si scotomizzano dalla visione. In alcune sequenze, interviene difatti un effetto che potrebbe definirsi di “ingrandimento sonoro”: il rumore insito in un’azione del quadro viene amplificato, creando una sorta di “zoom acustico”, che commenta l’immagine quasi dall’esterno, con una forte suggestione percettiva. Un esempio tra tutti è quello del rumore prodotto dall’atto di contare i soldi che, in molte scene, sembra avvolgere lo spettatore quasi in uno smarrimento, come una forza eolica che si avvicina troppo ai sensi. Altro effetto di rilievo, sempre rimanendo nell’ambito della colonna sonora, è quello che genera la sensazione di silenzio. In una delle scene finali, ad esempio, dopo una vendetta trasversale consumata con gran fracasso di proiettili, non si odono neppure i passi di Don Ciro che scappa, solo i lontani rombi di auto, nel progredire della scena. Il silenzio che soffia via la vita dai corpi si concretizza in un espediente audiovisivo ben conosciuto, ma utilizzato qui con grande maestria ed efficacia.

Advertisement