[oblo_image id=”1″]Presentato al Torino Film Festival il nuovo capolavoro di Stacy Peralta Made in America”: ovvero tutto quello che avete sempre voluto sapere su Los Angeles e non avete mai osato chiedere.

Dopo il successo di “Dogtown and Z-Boys” l’ex skater ora regista si è cimentato nella difficile ricostruzione della storia dei violenti quartieri del sud di Los Angeles. Ha intervistato i maggiori esponenti delle pericolosissime gang afroamericane che hanno insanguinato la città per moltissimi anni, i Crips e i Bloods, e ripercorso gli avvenimenti più significativi dai ghetti durante la segregazione razziale passando per la rivolta del 1992 fino ad arrivare agli anni più recenti.

Il documentario è girato molto bene con un montaggio molto coinvolgente che intervalla le interviste ad immagini di repertorio sempre dure e di grande effetto. Fra Main Street e Washington Boulevard, Slauson Avenue e Alameda Street, due gang rivali, i Crips e i Bloods, si sfidano quotidianamente per la difesa del proprio territorio. Uno scontro fra veri e propri eserciti con più di 40.000 uomini, che rende invivibili le strade del quartiere. Peralta ci porta in uno spaccato dell’America che molto spesso non vediamo in televisione: quartieri senza futuro impregnati d’odio e di violenza in cui l’unica legge conosciuta è quella del “do or die”.

Gli abitanti di questi quartieri vivono in un costante stato di guerra, i bambini impugnano la loro prima pistola verso i 10 anni, le madri sono costrette a seppellire i loro figli. Sangue chiama sangue. Odio chiama Odio. Violenza chiama violenza.

Il regista descrive una società senza padri, quasi tutti morti o in carcere, in cui i figli mostrano i muscoli per farsi rispettare in quartieri in cui i protagonisti non conoscono nemmeno più i motivi della guerra in atto tra le bande.

Peralta porta nelle sale un duro atto di accusa al sistema e soprattutto alla società americana che ha creato, ed ora cerca invano di nascondere, una realtà ben lontana dal “sogno americano”.

E’ la parte di America con il più basso tasso di alfabetizzazione e il più alto di criminalità: una realtà che, più che «Made in America», sembra provenire dalle zone di guerra dell’Iraq o dell’Afganistan.

Il regista ha detto: “Ho deciso di girare Made in America per rispondere alle seguenti domande: se gli adolescenti ricchi della borghesia bianca americana formassero delle gang, procurandosi delle armi automatiche e uccidendosi a vicenda, come risponderebbe il paese? Il nostro governo permetterebbe che la violenza continuasse incontrastata, decennio dopo decennio? Per me a risposta è ovvia: non credo che il nostro governo tollererebbe una cosa del genere.

Una pellicola agile e coinvolgente, ricca visivamente, agile nel montaggio, che ripercorre oltre cinquant’anni di storia americana con grande vitalità. Un documentario denso e duro ma allo stesso tempo spedito.

Da vedere.

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