[oblo_image id=”1″] Quando un addio è bello, è di una bellezza dolorosa. Da pelle d’oca, da voce strozzata in gola, da occhi lucidi e malinconici. Il saluto di Pavel Nedved al popolo bianconero lascia meravigliati anche se si trattava di un copione già scritto. Non è il momento di arrovellarsi sull’opportunità mancata di allungare ancora per una stagione un legame durato otto anni ma così profondo da non poter essere raccontato dai numeri. Nedved lascia come lasciano i grandi. La sua fiamma è affievolita, non si è ancora spenta. Avrebbe ancora tanto da dire, da dare, da insegnare. Ma non se lo può permettere. Non può concedersi di essere altro da ciò che è stato finora. Se sei stato il guerriero più valoroso abituato a combattere in prima linea, non puoi accontentarti della tranquillità di un veterano adagiato nelle retrovie. Non lo accetterebbero gli altri, soprattutto non lo accetterebbe lui. Si è parlato di presunti screzi con la società, di dissapori creati ad arte dal procuratore, ma ora tutto passa in secondo piano. In fondo, i modi e i tempi di un addio non sono così importanti. Conta di più cosa è successo prima, la storia che è stata scritta, le fotografie immortalate nella memoria. Un grande dello sport italiano – Felice Gimondi – che per coraggio e carattere può essere paragonato a Nedved, ha raccontato le difficoltà di abbandonare ciò che si ama : “Dietro una scrivania in giacca e cravatta mi sono tolto soddisfazioni e preso vittorie. Ma mi continuo a chiedere se sia il mestiere giusto per me. Quando sudavo in bicicletta non mi sono mai fatto quella domanda: sapevo che quel lavoro mi stava a pennello“. Ecco, fa un certo effetto immaginare la Furia Ceka impegnata in qualcos’altro che non sia correre dietro ad un pallone. Ma siamo sicuri che lo farà bene. Come farà bene Paolo Maldini da dirigente Milan, procuratore o delegato Uefa. Siamo noi appassionati a sentirci un po’ più soli dopo averli persi in una domenica primaverile profumata di nostalgia.
L’addio di Nedved: fa male ma è bello così
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