[oblo_image id=”2″] Se fosse una favola, inizierebbe così: “C’era un bimbo cheaveva avuto in dono una racchetta per giocare a tennis. Voleva provare il suonuovo giocattolo ma fuori dal cancello trovava sempre un signore cattivo chenon gli permetteva di entrare”. Siccome non è una fiaba, ma una storia vera omeglio un pezzo di Storia americana, bisogna precisare luoghi, date e nomi.Siamo intorno alla metà del secolo scorso nella capitale dello stato dellaVirginia. Richmond ha sette colli come Roma, ha avuto un ruolo chiave durantela Guerra di Secessione, ha 200.000 abitanti mal contati. Eppure, anche se nonsi sa  perché, ha dato i natali a gentecome Patricia Cromwell, Tom Wolfe o Shirley MacLaine.

Quel bambino si chiamaArthur Ashe, proviene da una famiglia povera, piuttosto gracilino, un po’dinoccolato. Per struttura fisica non sembra adatto né al basket né alfootball, mentre non gli piace il baseball. Il tennis andrebbe bene ma non puògiocare perché i campi non sono accessibili alle persone di colore. Può saliresul pullman per andare a trovare la nonna ma stando sempre sui sedili in fondo,al di là della linea che delimita la zona riservata ai bianchi.

È un’Americaancora profondamente divisa, che si spaccia per frontiera di libertà ma chedeve fare ancora i conti con le proprie contraddizioni. La segregazionerazziale in alcuni stati vieta i matrimoni misti, prevede tavoli separati neiristoranti, l’impossibilità di bere alle stesse fontane o di inserire bambinedi etnie diverse nelle stesse classi. Per cambiare la legge bisogna attendereil 1964 allorché Lindon Johnson rende effettivo il decreto presentato da JohnFitzgerald Kennedy siglando il Civil Rights Act. È un passo cruciale nelcammino verso la democrazia ma per cambiare la mentalità ci vuole di più. Decisamentetroppo. Quel bambino intanto cresce e continua a lottare  per guadagnarsi l’ingresso nei campi datennis. A dirla tutta, combatte per superare ogni forma di discriminazione: lesue armi sono  il talento con cui muovela racchetta e  il coraggio con cuimuove le labbra per incidere parole che profumano di ribellione.

Lui nero inuno sport tradizionalmente ad esclusivo appannaggio dei bianchi. Si fa notaresia perché vince i tornei giovanili sia perché pur non alzando mai la voce, èassolutamente renitente a ogni divieto. È atipico, anticonformista, carismatico, educato nei modi, pacato neitoni e corrosivo nella sostanza : gira il mondo per i tornei e intanto aprecentri sportivi, campi che hanno un’unica condizione comune. Free, aperti atutti: sceglie i quartieri dove solitamente si fa tutto tranne che pensare acome impugnare una racchetta chiedendo alle nuove generazioni di raccogliere iltestimone. Nel 1968 è il miglior giocatore del mondo ancor prima di passare alprofessionismo: domina gli Us Open e trascina gli Stati Uniti a conquistare laCoppa Davis. È il primo tennista di colore a centrare l’impresa di alzare untrofeo dello Slam. Qualche anno dopo sbanca gli Australian Open e gli rimane ilsogno di Wimbledon. Il torneo che vale più di tutti gli altri, un tempio metàsacro e metà profano dove si fondono tradizione e amore per il gioco.L’etichetta impone di vestirsi di bianco ma in questo caso l’imposizionecromatica ha un tono nobile: l’abbigliamento di giocatori e giocatrici per Asheè il simbolo del candore con cui bisogna avvicinarsi alle segrete stanze del tennis.

L’occasionearriva nel 1975 ma l’avversario che trova in finale è Connors, la sua bestianera. Il gioco di Ashe si basa sull’attacco, su volee e improvvisi cambi diritmo ma è uno stile che sembra non pagare contro il numero uno al mondo checon i suoi colpi piatti ha sconfitto Ashe in tutti e tre i precedenti. E allorail campione di Richmond cambia tattica e scende in campo con un piano preciso:rallentare il gioco per mandare fuori giri chi sta dall’altra parte della rete.Per due set l’erba di Wimbledon diviene per Connors simile alle sabbie mobilidi certe sciagurate spiagge dell’Olanda. Sprofonda punto dopo punto, più sidimena e più precipita. Ha una reazione d’orgoglio che gli consente di conquistareil terzo parziale e cerca di spostare l’incontro sui suoi binari. Esulta,aggredisce verbalmente, smania per trasformare la contesa in bagarre. Chiunquealtro rischierebbe di disunirsi, verrebbe roso dai dubbi sulla necessità diabbandonare la strategia iniziale e cercare un piano B, ma Ashe tiene duro.Continua sul sentiero tracciato negli spogliatoi, rilegge mentalmente queifoglietti in cui aveva annotato tutti gli stratagemmi necessari per sfatare lamaledizione Connors. Non risponde alle provocazioni e riprende a tessere la suatela fino a completare la missione: per la prima volta un uomo di colore sfatail tabù di Wimbledon, l’oasi conservatrice della racchetta. Il più grandegiornalista sportivo americano, John McPhee scriverà il giorno dopo sulle righedel New Yorker che Ashe ha vinto per “manifesta superiorità culturale”.

Ricordiamole quelle parole perché segnano una svolta epocale: un americano dicolore che batte un americano di pelle bianca per manifesta superioritàculturale è un calcio ai pregiudizi, agli stereotipi, ai luoghi comuni. Perchéallora – a dire la verità qualche refolo razzista rimane anche oggi – unavisione bigotta prevedeva che gli sportivi di colore potessero eccellere perchedotati di fibre muscolari impareggiabili per saltare più in alto o correre piùveloce ma che non si trovassero a loro agio quando si trattava di mettere sulcampo acume o competenza. E invece Ashe aveva trionfato a Wimbledon più con latesta che con le gambe, usando dosi massicce di autocontrollo per spegnere ogniprovocazione del proprio avversario. Nello stesso anno di grazia 1975 affrontaal Masters, Ilie Nastase. Il rumero è un campione con la racchetta e unfuoriclasse con la lingua quando si tratta di usare ogni mezzo lecito eillecito per far saltare i nervi l’avversario. Ritarda il gioco, accompagnaogni punto con una smorfia e studia chi sta dall’altra parte della rete percercare l’ingiuria più pertinente. Sa che Ashe è attivo nelle battaglie controil razzismo e allora comincia a chiamarlo Negroni. “What a shot Negroni” o “Where did you learn,Negroni?” (Che colpo, Negroni! o “Dove hai imparato a giocare cosìbene, Negroni”). Ashe ascolta e non risponde, vorrebbe spaccare la racchetta macontinua a giocare. Arriva sino al 4-1 in suo favore nel set decisivo e a quelpunto lascia il campo. L’arbitro gli fa notare che perderà la partita in casodi abbandono e lui replica: “I don’t care!. I’d rather lose that thanmy self-respect”. Preferisco perdere questopiuttosto che il rispetto di me stesso, frase tipicamente da Ashe anche per i modie i tempi scenici. Abbandona il campo quando il punteggio è decisamente dallasua parte, come a dire a Nastase: “i tuoi insulti non servono neanche a fartivincere la partita. Ma se pensi che per vincere una partita sia lecito mettereda parte la dignità, allora tieniti il match”.

Manifesta superiorità culturale,ancora una volta. E il giorno dopo i grandi saggi del Masters riunendosi perdover assegnare la partita, capiscono di non poter premiare chi si è limitato adinsultare decretando il successo del campione americano. Finisce con l’agonismonel 1979 per un problema cardiaco. È soddisfatto della sua carriera – e cimancherebbe – anche se avverte con insofferenza la sensazione di non avercompletato un ideale cerchio: ha conquistato tre titoli dello Slam ma manca ilRoland Garros. Per fortuna, lo sport sa regalare congiunture apparentementeinspiegabili o, dipende dalla prospettiva d’osservazione, facilmentecomprensibili se si ha una visione romantica degli strani percorsi del destino.Nei suoi tanti viaggi, Ashe ha fatto tappa nel 1972 a Yaoundè in Camerun.Nessun altro avrebbe potuto pensare di spingersi fin lì; l’obiettivo non eratanto di crescere campioni o di scovare talenti quanto di non far sentire nessunoescluso neppure nelle periferie del pianeta. Tra di loro c’era un bambino a cuiAshe dona la prima racchetta; quel fanciullo si chiama Yannick di nome, fa Noahdi cognome e vincerà il suo unico titolo dello Slam proprio a Parigi nel 1983.Ashe è presente quel giorno e come in un ideale passaggio di consegne, cede iltestimone al nuovo eroe treccioluto del campo Centrale. Anche fuori dal tennis,è sempre lo stesso. Combatte le battaglie per i diritti dei più deboli perché èconvinto che in fondo siano anche i propri. Si impegna per dareun’assicurazione sanitaria a chi non se la può permettere, predica sport ededucazione nei quartieri più degradati, fa proseliti e ricorda ai nuovicampioni che vi è qualcosa di più importante al di là della rete.

Continua a essereun guerriero anche quando una trasfusione infetta lo rende sieropositivo. Nonperde le ultime energie nel rancore: “Non mi sono mai chiesto perchè siatoccato a me. Se lo domandassi a Dio, mi farebbe notare che non mi sono fattotanti interrogativi per tutte le cose belle che mi sono capitate. E sono statetante”. Anche quando la malattia è ormai inarrestabile, ricorda che “l’Aids nonè stato il più assillante peso della mia esistenza. Quello è stato la mianegritudine”. Se fosse una fiaba si concluderebbe dicendo che il più importantecampo da tennis degli Stati Uniti, il Centrale di Flushing Meadows, porta ilnome del bambino che non poteva entrare nei circoli per provare il suo nuovogiocattolo a causa del colore della pelle. Per fortuna, è qualcosa di più diuna fiaba. Perché in cinquant’anni tante cose cambiano soprattutto se ci sonopersone che sanno far cambiare la Storia con la esse maiuscola.

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