Abebe Bikila
Abebe Bikila

“L’Etiopia ha il diritto di vivere come essa è, con le proprie virtù ed i propri difetti, con i suoi buoni e cattivi ricordi.
Ha il diritto di avanzare con prudenza, con cautela, sulla via di quel progresso la cui eccellenza non è affatto evidente. Ha il diritto di non essere forzatamente spinta su quel percorso come un criminale verso la propria prigione.
Ha il diritto di scegliere la strada o il sentiero che meglio si addice ai suoi piedi nudi”.

Sono parole di Haile Selassiè, negus dell’Etiopia nel momento più difficile della storia del Paese. Era il 1936 e l’Italia si apprestava a occuparla nell’indifferenza colpevole degli organismi internazionali. Quando una nazione viene violentata, il patriottismo dilaga: è una reazione immediata. Niente ti fa sentire più legato alla tua terra come sapere che qualcun altro la sta calpestando. Abebe Bilkila è cresciuto in quella terra e in quel momento storico e non ha fatto eccezione alla regola. E’ nato a Jato, un piccolo villaggio legato alla pastorizia. Si divertiva a correre anche perché c’era poco altro da fare aspettando che arrivasse un’occasione per svoltare. A volte basta una chiamata. Qualcuno gli confida che puoi  che può andare nella capitale per lavorare come agente di polizia. Via, raccogliere le cose – per fortuna sono poche e si fa in fretta – chiudere i bagagli e si parte. Per lui Addis Abeba è l’eldorado: quando ti capita più un’opportunità del genere? Nella professione è esemplare: mai un ritardo, ma una parola fuori posto: la fortuna gli ha dato una mano, d’ora in poi il resto dovrà prenderselo da solo. Non sbaglia, si guadagna rapidamente la stima degli alti ranghi e viene promosso tra le fila delle guardie personali del negus. È una vita che lo gratifica, un impiego sicuro al servizio di chi guida il Paese che ama e un rispetto insolito per chi viene da così lontano dalla capitale.

Potrebbe fare carriera istituzionale, ma il destino bussa nuovamente alla sua porta. Viene organizzata una gara riservata a tutti i componenti delle forze armate etiopi: marina, aeronautica ed esercito. Dovrebbe essere un’esibizione per mettere in risalto la salute e l’efficienza fisica delle milizie e Abebe si chiede se valga la pena di partecipare. Ha sempre corso per diletto da quando era bambino e non ha mai smesso, ma non ha mai avuto una tabella di marcia, un allenatore, una guida che potesse aiutarlo a correggere i difetti e stabilire la strategia di gara. E poi la maratona non è una gara come le altre. E’ riduttivo persino dire che sia l’emblema dell’Olimpiade perché in realtà è l’Olimpiade stessa. Con la maratona è cominciata la storia, con la maratona si chiudono i Giochi. Non ci sono attrezzi, strumenti o piste. Ci sono solo strade e uomini che devono correre per 42.195 km che lacerano muscoli, tendini e nervi. Non bisogna solo vincere fatica, acido lattico e resistenza di gambe che implorano di fermarsi. In una maratona un atleta ha il tempo di pensare, di torturarsi in paure e ansie, di interrogarsi su tattiche e avversari. Anche quando il pubblico è assiepato ai bordi della strada, il maratoneta rimane un uomo solo. Non sa se e quando il fisico gli presenterà il conto. Intanto corre.

Ma presentarsi ad una gara da dilettante significa rischiare di andare incontro a una brutta figura: come si giustificherebbe poi davanti alle autorità in caso di cedimento? E’ la prima sliding door che si presenterà davanti a Bikila – per una curiosa regola etiope viene pronunciato prima il cognome e poi il nome: quindi Abebe corrisponde al nostro cognome – che rimane esitante per giorni. Poi si arma di coraggio e va all in: sarà ai nastri di partenza della prima maratona della sua vita al cospetto delle massime cariche del Paese. Parte forte inseguendo il sogno di vincere, fino al km 35 è nelle posizioni di testa. E dopo? Il trentacinquesimo km per la maratona è il punto di svolta. Il traguardo è vicino, avresti voglia di aumentare ancora il ritmo ma il serbatoio delle energie è quasi a secco e se la benzina finisce a quel traguardo rischi di non arrivarci proprio. Abebe non dosa al meglio lo sforzo e accusa il colpo nel finale; quando le gambe si appesantiscono, bisogna trovare risorse nei nervi, nell’orgoglio. Non crolla di schianto e conclude la sua fatica in 2h39 minuti in seconda posizione. La folla acclama il vincitore che viene portato in trionfo con tutti gli onori del caso. C’è, però, sempre qualcuno che sa vedere dove lo sguardo degli altri si arresta, di scovare il talento in chi è passato inosservato. C’è un ufficiale della Croce Rossa che a tempo perso segue l’atletica e va alla caccia di talenti. Si chiama Onni Niskanen, svedese di passaporto, finlandese di origine e con una vita così tumultuosa che meriterebbe di essere raccontata in un romanzo a parte. Si informa e quando scopre che ha raggiunto quel risultato da dilettante, decide di puntare su di lui. Si mette in contatto:

“Ti piacerebbe correre?”

“Sì, io corro da sempre”
“No, intendevo correre per professione. Vivere facendo le gare”.

Abebe sorride e pensa: “Ma si può vivere correndo?” Sì, si può. Non è facile, perché bisogna arrivare all’eccellenza per poter guadagnare qualcosa e lui non è più un bambino. Non ci sono i meeting di adesso; la fama te la possono dare soltanto le Olimpiadi. Viene inserito nel programma a cinque cerchi: ha quattro anni di tempo per presentarsi a Roma. Onni Niskanen plasma allenamento dopo allenamento il suo modello. Lavora tecnicamente correggendo la falcata di Abebe: la sua andatura è efficace ma non economica. Tende a consumare troppo e questo è un peccato mortale per un maratoneta. Insegna a Bikila anche come distribuire lo sforzo durante i 42.195 km: in questo le nozioni dell’allenatore apriranno una nuova frontiera. Prima la maratona era una gara per pionieri disposti a dare tutto fin dai primi km per poi resistere stoicamente sino al traguardo. La figura mitica di riferimento è quella di Dorando Pietri che cadde dieci volte e dieci volte si rialzò prima di raggiungere la linea d’arrivo (per poi essere squalificato per le spinte d’aiuto ricevute dal pubblico). Bikila ha in mente qualcosa di diverso ma rimarrà un enigma per i suoi avversari fino alla vigilia di Roma.

Già, la maratona a cinque cerchi della capitale è il motivo principale per cui è ricordato Abebe. Perché anche chi non segue lo sport, ha negli occhi la foto di un corridore che si avventura nella capitale scalzo tra due ali di folla che lo eleggono sul campo beniamino assoluto. Se ne è parlato e si è speculato. Si è detto che Bikila non aveva i soldi per comprarsi le scarpe, qualcuno ha osato “le scarpe non le ha mai avute”. In realtà, la spiegazione era soltanto tecnica. Aveva accusato un leggero fastidio al piede e negli ultimi allenamenti aveva eseguito una serie di prove. La gara era in programma alla sera quindi non ci sarebbe stato l’ostacolo di un asfalto cocente: correndo scalzo guadagnava circa un paio di secondi al km. Ecco perché al via si era presentato in versione barefoot: non era uno sprovveduto, semplicemente aveva sfruttato una consuetudine di quando era ragazzo fondendola con il rigore scientifico delle valutazioni dell’allenatore. Gli altri non lo conoscevano, ma lui aveva chiaro l’obiettivo. Niskanen gli aveva confidato: “Puoi vincere” e lui ci aveva creduto. Abebe si sentiva carico e si era promesso di rispettare la tattica concordata. 10 km iniziali con i muscoli decontratti, uno sguardo agli avversari per leggere nei loro occhi e poi iniziare la progressione sempre senza strattoni. Rimanere alle spalle dei battistrada ma abbastanza vicini da poter controllare la situazione: preservare più energie possibile mantenendo costante l’andatura. Ora è un principio base delle corse di resistenza, nel 1960 rappresentava quasi una novità. A metà gara Abebe raggiunge le prime posizione e aspetta il momento giusto per colpire. C’ è un punto preciso che aveva memorizzato e che ha un sapore del tutto particolare. Si chiama Stele di Axum, un obelisco in pietra basaltica a sezione rettangolare alto oltre 23 metri e pesante 150 tonnellate. Aveva un valore religioso ma il regime fascista non se ne era preoccupato. Ripartita in sei tronconi era stata portata in Italia con buona pace dei diritti degli etiopi e dell’odissea di due mesi degli uomini impiegati per il trasporto. E vedendo quella stele che Abebe sapeva di dover trovare la scarica di adrenalina per l’accelerazione decisiva. Proprio quando gli altri cominciano a essere impietriti dai crampi, Bikila sembrava volare con un’andatura leggera come non si era mai visto prima e non si sarebbe più vista dopo. Passo dopo passo, stava riscrivendo la storia: alla vigilia, si sarebbe accontentato di un po’ di gloria e invece stavo entrando direttamente nel mito. Quando taglia il traguardo, Roma sospende il respiro: c’era qualcosa di primordiale nel vederlo correre scalzo per le vie storiche della capitale. Lui si limita a un sorriso e a una dedica: “Volevo che il mondo sapesse che il mio paese, l’Etiopia, ha sempre vinto con determinazione ed eroismo“.Improvvisamente si ritrova personaggio pubblico e star assoluta dei Giochi. Lo cercano per le interviste, lo invitano nei ricevimenti ufficiali, gli propongono contratti di sponsorizzazioni. Ce ne sarebbe abbastanza per perdere il controllo e lasciarsi andare. Bikila tiene di vista l’essenziale: ama fare il maratoneta e fare il maratoneta è una scelta senza via di ritorno. Se ci si distrae da allenamenti, tabelle di marcia e regole ferree, si precipita rapidamente nell’oblio e lui vuole continuare a essere il testimonial di un’Etiopia vincente e fiera del proprio valore. I risultati post Roma sono imbarazzanti. Per gli avversari. Bikila vince sempre, con distacchi abissali e mette nel mirino l’obiettivo: essere il primo nella storia a conquistare due Olimpiadi consecutive. Non ci sarebbero rivali all’altezza, ma ci si mette di mezzo la sfiga. Abebe deve operarsi di appendicite: non è un intervento preoccupante ma costringe a bloccare la preparazione a poche settimane dalla maratona di Tokyo. Niskanen prova a stilare una tabella d’emergenza, ma quando si presenta al via, rimane un’incognita. Lo sanno anche gli avversari che pensano sia giunta l’occasione per spodestare il re: bisogna tenere subito alto il ritmo per mettere in difficoltà il campione in carica e sferrare il colpo decisivo nel finale. Questa è la teoria, la pratica è che nello sport vince il più forte. E il più forte è ancora Abebe. Stavolta corre con le scarpe sia per la tipologia del percorso sia perché vuole confermare in mondovisione come a Roma non si fosse trattato di un retaggio dovuto alla povertà o di un’ostentazione di miseria. Orgoglio, prima di tutto. Bikila polverizza il precedente record e si issa a miglior maratoneta di ogni epoca. Cosa lo può fermare? Semplice, ciò che prima o poi presenta il conto a tutti i fuoriclasse. Si chiama tempo che passa e non fa sconti. Alle Olimpiadi di Città del Messico, Abebe capisce dopo pochi chilometri che non ha più il ritmo per fare la differenza e si mette al servizio del connazionale Mamo Wolde che simbolicamente ne raccoglie il testimone. Sta calando il sipario sull’atleta, purtroppo una carognata della vita scombussola anche l’esistenza dell’uomo. Un incidente stradale lo rende paralizzato. Una legge del contrappasso così crudele, la ripicca del fato contro chi aveva costruito la sua leggenda grazie alle gambe. Da ogni parte del mondo, i migliori centri specialistici si offrono di fornirgli assistenza. Abebe capisce che il segnale è importante per il suo Paese e lo ribadisce ai connazionale durante i ringraziamenti. Se lui era riuscito a meritarsi l’ammirazione e la stima a livello planetario, allora anche per loro c’era la possibilità di aprirsi un varco, di ricevere finalmente quel rispetto per cui vale la pena di lottare. “C’è un motivo se mi è stato concesso di vincere l’Olimpiade rappresentando il mio Paese, c’è un motivo se ora devo vivere su una sedia a rotelle. È un’altra sfida: niente di più, niente di meno”. Nessun trattamento consentirà ad Abebe di tornare a camminare. Però, c’è sempre modo di gareggiare e lui sperimenta tiro con l’arco, corse di slitte trainate da cani, ping pong, partecipa anche alle Paralimpiadi. Dedizione, gusto per la fatica, ricerca continua di nuovi traguardi. Fino al marzo 1973 quando Abebe saluta definitivamente la vita terrena. Il suo segno rimane negli omaggi: da un ponte pedonale a una statua, dai monumenti ai film. Dustin Hoffman ne Il maratoneta lo issa a idolo da imitare, The Athlete ne ha riproposto la storia sul grande schermo. Ma il vero messaggio di Bikila è che il sogno di un bambino che ama correre può cambiare la storia di un Paese. I sogni dei bambini non muoiono mai, semplicemente vengono raccolti dai bambini delle generazioni del futuro. E cosa c’è di più suggestivo di un bambino che sale sul tetto del mondo correndo scalzo?

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