La copertina di What's going on di Marvin Gaye
La copertina di What’s going on di Marvin Gaye

Alla fine degli anni ’60, di quell’artista tra i più popolari nel panorama della black music non rimaneva che l’ombra. Nonostante la depressione, il successo cresceva, e con esso una fama che varcava i confini nordamericani. Tuttavia, le vendite e le prime posizioni in classifica non appagavano artisticamente e non bastavano a dar pace ad un uomo distrutto e smarrito. Marvin Gaye era sull’orlo del baratro: un matrimonio che somigliava ad una farsa, un fratello in Vietnam, il tumore e la conseguente morte della sua sodale artistica e grande amica Tammi Terrell lo avevano trascinato nel baratro della tossicodipendenza e in un disperato tentativo di suicidio. Il pupillo della Motown si sentiva come “un burattino nelle mani di Anna (sua moglie) e di Berry (Goldy, suo cognato e fondatore della Motown Records)”. “Avevo un cervello, ma era come se non lo stessi usando”, avrebbe affermato anni dopo.

C’era qualcosa di profondamente sbagliato in quel successo, che Gaye stesso considerava immeritato. La ragione di tanta insoddisfazione – oltre ai guai personali – erano la musica superficiale e l’immagine plastica con cui la casa discografica intendeva ad ogni costo presentarlo al pubblico: quella del sex symbol nero, tutto donne e spensieratezza, incapace di veicolare messaggi che non fossero di intrattenimento di bassa lega per un target – quello degli afroamericani – ancora lontano dall’emancipazione e con un grado di istruzione drammaticamente basso. In Vietnam si combatteva una guerra folle e in patria le cose non andavano meglio, soprattutto nei sobborghi delle grandi città, tra degrado urbano, criminalità, povertà e aumento smisurato del consumo di stupefacenti tra i più giovani.

Ormai, l’abito della popstar andava stretto ad un uomo che intendeva smettere di abbindolare un popolo in profonda sofferenza ed iniziare a stimolarlo al modo di Martin Luther King, il cui assassinio lo aveva ferito profondamente. La redenzione del Marvin Gaye uomo e artista passò, come spesso accade, per una rinnovata fede in Dio e per la convinzione che la musica afroamericana dovesse assumere tendenze ben più spirituali ed intenti ben più nobili di quelli perseguiti dall’industria discografica dei tempi. Si chiudeva così il periodo del romanticismo pop di “I Heard It Through the Grapevine” (1968, inclusa da Rolling Stone tra le 500 più grandi canzoni di sempre) ed iniziava l’epopea soul di “What’s Going On”, l’album che, come raccontato da Smokey Robinson, Gaye considerava essere stato “dettato” direttamente da Dio.

Al primo ascolto, Berry Goldy disse che “What’s Going On” era la canzone più brutta che avesse mai sentito. Probabilmente, per un discografico dalle vedute corte che non aveva capito che il vento stava cambiando, lo era. Suo dispetto, vendette un numero insperato di copie, raggiunse la vetta delle classifiche e diventò presto una pietra miliare della musica soul e uno dei brani più conosciuti e suonati di sempre a livello planetario. Nel 2004, Rolling Stones lo posizionò quarto tra le 500 più grandi canzoni di sempre. Allo stesso modo, l’LP finì sesto nell’analoga classifica per album della rivista americana, al pari dei più grandi lavori di Bob Dylan, Elvis e i Beatles.

La musica afroamericana sarebbe cambiata per sempre. Il soul si emancipò dall’etichetta di musica pop per neri e recuperò le sue radici nobili nel messaggio di speranza e di redenzione del gospel. Gli arrangiamenti si fecero solenni: archi, fiati, cori struggenti, voci sospirate, bonghi e percussioni della madre Africa; il tutto coniugato ad un ricorso alle ritmiche classiche al modo di James Brown per le chitarre ed il pianoforte. Le liriche (“Save the Children”, “God Is Love”, “Mercy Mercy Me”) si fecero poetiche, spirituali, dolci, malinconiche e al contempo inondate di luce e speranza. L’aspetto di Marvin Gaye, da quello proprio di un animale da palcoscenico, si trasformò in quello sobrio e austero di un uomo di fede, ritratto in trench nero sotto la pioggia mentre passeggia per le strade della città.

Nel 1971, “What’s Going On” parlò dritto al cuore delle persone in quegli anni di disperazione che seguirono gli attentati a Martin Luther King e Bobby Kennedy. Da un punto di vista strettamente musicale, l’album coniò lo standard che – insieme alle perle di Smokey Robinson e Stevie Wonder – avrebbe influenzato massimamente tutte le generazioni di artisti soul a venire: da Prince a Lenny Kravitz, da D’Angelo a Maxwell, da Remy Shand a Erykah Badu. Tutti avrebbero attinto a piene mani dal ricettario di Marvin per plasmare qualcosa di “meaningful”, che avesse un messaggio da veicolare, prima ancora che di “entertaining”.

“What’s Going On” è il più fedele ritratto su pentagramma della rivoluzione pacifica auspicata da quel pastore protestante di Atlanta che finì per ricevere il Nobel per la pace. Per partorirlo, ci volle il genio di un uomo dapprima pericolosamente vicino all’inferno, poi miracolosamente prossimo al cielo.

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